Valentina Dell'Aquila

altWar is cinema, cinema is war
(Paul Virilio)

In The Terror Dream: Myth and Misogyny in an Insecure America, Faludi scriveva:« la cacofonia ripetuta di certe verità induce un tipo di ipnosi culturale: gli americani sembrano scivolare in uno stato di sonnambulismo e nessun film o dramma televisivo può realmente rappresentare il nuovo trauma» (Faludi 2007, p. 2). In altre parole: il contemporaneo fallimento delle politiche di sorveglianza spiega come la genesi psichica di una nuova estetica del trauma influenzi e limiti (rappresentativamente) la nuova (ordinaria) visione cinematica: la funzione dell’arma è assimilabile alla funzione (invisibile) della camera; sarà perciò a partire da questa che si attuerà la ricostruzione di un nuovo sguardo. Perciò l’ipotesi post-traumatica di cinema come hauntology non sarà più nel roboante, nella rapidità guerresca che imita una realtà mai data: nell’immagine sarà la perdita, la simulazione senza inganno, lo spettro continuamente differito.


Sull’idea di militarizzazione e nazionalizzazione del corpo, O’er the Land penetrava la composizione identitaria della società americana affermandone sistemi, rituali e marchi, e, del resto, il riferimento a The Star-Spangled Banner (quindi a The Defence of Fort McHenry) ne è l’ennesima didascalia («the star-spangled banner! O long may it wave. O’er the land of the free and the home of the brave»). Si pensi poi alla contemplazione, a quell’assoggettamento estetico del patriottismo qui spettralmente riportato in un cumulo di immagini di parate, commemorazioni in costume da guerra civile, danze in campi da football, camper in attesa di coraggiose esplorazioni yuppie o mantriche convention del fucile: la società disciplinare, il suo esercizio in infinite ridondanze, omologie nazionali, e libertà coercitive.

Stratman ha spesso integrato la sua ricerca a quel dispositivo di sorveglianza e controllo che è lo Stato centralizzato, o meglio al suo sviluppo panottico, la sua fittizia idea di sicurezza, la sua polizia, i movimenti locali, le organizzazioni urbane, la localizzazione dei corpi, ma in questo caso il panottismo della civiltà della sorveglianza a cui fa riferimento è qualcosa di linguisticamente differente. Dapprima c’è lo sguardo invisibile dell’operatrice che diviene a sua volta nuovo sguardo (illuminato) di controllo, poi lo sguardo cerimoniale dell’altro (altro in quanto soggetto laterale, relativo, disciplinato: il soggetto che osserva ha lo stesso campo visivo del soggetto registrato), infine c’è la possibilità di una visualità altra, predisciplinare. La socializzazione qui mostrata è un raggruppamento di continue rappresentazioni e costumi di forza: corpi docili, corpi addestrati a rappresentare fierezza, vigore, coraggio. Un corpo imperioso, controllato, economico, osservato nell’esercizio storico del suo impegno. La catena della socialità americana è poi strappata da un affardellamento di cieli che strisciano sul voice over di Rankin (The Man Who Rode the Thunder) che racconta trepidante la sua autoespulsione d’emergenza dal caccia Vought F-8 Crusader. Sull’opposizione tra questi due modelli, Rankin, per mezzo della sua rottura non controllata, è per Stratman il simbolo di un corpo prediscliplinato e prenormativo, un corpo liberato nell’irregolarità di un oblio: insomma, la detenzione dei corpi è di colpo interrotta.

Correlativamente, il dispositivo di controllo (questa volta sonoro) veniva testato in Village, Silenced, suggerendo (anche qui) tre diversi sguardi a partire dall’ipnotica ripetizione di una singola sequenza tratta da The Silent Village, film di propaganda sull’occupazione nazista del villaggio di Lidice. Sulla politica del rumore e del silenzio si era già espresso Goodman in Sonic Warfare (titolo a sua volta riferito a The Last Angel of History di Akomfrah). Insomma si tratta di mappare le contemporanee tendenze del corpo sonico di attraversarsi nel suo sub-potere di frequenza militare (e quindi di controllo), nella sua sub-politica espressa in forma di (micro) frequenza, a tradurre e trasformare tensioni urbane in nuovi ambienti di paura e controllo, e codificare nuovi suoni, percezioni e movimenti legati alla cultura sonica di guerra.

Ebbene, l’effetto più importante in Village, Silenced è proprio in questa ripetizione differenziata del rumore controllato, in questa artificializzata ecologia della paura: la medesima sequenza dapprima brutalizzata da comunicazioni audio d’insediamento, poi sospesa in assordanti droni e bombardamenti, infine straziata da un ancor più roboante e sovrano silenzio. Il suono quindi, ritratto nel suo potere audio-sociale di ispezione e controllo. Non era un caso parlare di ipnotismo del dispositivo artistico come suggestione, come effetto psicologico e sociale: la musica non suggerisce, ma imprime. Così per Stratman la forma sociale – come direbbe Tarde – non è tessuto di relazioni, bensì sogno di azione e comando: l’uomo sociale è un sonnambulo ritratto nel suo costante stato ipnotico. «A new value of system is formed», scrive Selma Doborak nel suo video-essay Those Shocking Shaking Days, e ci ritroviamo la medesima spettralità bellica, questa volta sottratta della sua seminale funzione rappresentativa. E ci accorderemmo alla tesi di Virilio secondo cui l’arma non è solo strumento di distruzione ma anche dispositivo di percezione, oggetto di simultanea esperienza collettiva; a proposito di Figures in a Landscape scriveva: «combat here is a game in which all the instruments take part in the saturation of space […] they use their weapons not so much for destroy but to establish a distance» (Virilio 1989, p. 19).

Tuttavia, la pura dissimmetria del vedere senza esser visto si definisce perfettamente in Hacked Circuit. Qui il circuito largo del potere come percezione è finalmente compiuto. Compiuto nella steady che circola e segue il foley in un percorso visuale che è detenzione percettiva; la camera è prigione, paranoia, apparato invisibile che controlla, macchina astratta, dispositivo sociale forzato nella sua tecnologia più subdola e anonima: il panottismo della tribuna, la griglia della violazione. Come già per Village, Silenced, il segreto e il nascosto sembrano incarnare ossessivamente l’invisibile esercizio della cultura globale e, la voyeuristica osservazione del foley all’opera, contribuisce, proprio per la sua spettralità virtuale, alla progressiva morte e scomparsa dell’autore – esperimenti e simulazioni, questi, più volte tentati da Farocki e Ehmann nell’esposizione Cinema Like Never Before, da Ataman in The Enemy Inside Me, in Ozone di Foerster, Parreno, Joseph, Joisten, o in What Farocki Taught di Godmilow, remake o bricolage tecno-biopolitici che riprogrammano un catatonico linguaggio ibridato di nuovi environments installativi: ideologizzazione del mezzo, digitalizzazione del tessuto e moltiplicazione degli strati di senso.

Tornando a Hacked Circuit, l’idea di risonorizzare l’ultima sequenza di The Conversation è necessaria per rafforzare il monolitico legame tra fantasie cospirazioniste, paranoia e tecnologia; il potere della macchina di sorveglianza infetta, riducendo la psiche a puro organismo di controllo. Come scrive Didi-Huberman su Farocki, quel che si vuol mostrare è lo strumento per prendere posizioni, direi un nuovo investimento sociale, «l’inizio della scoperta della maniera in cui si esercita il potere» (Deleuze su Foucault in AA.VV. 1976, p. 41). Quindi lavorare come una macchina e operare come un artista, scrive ancora Elsaesser. In Dubbing, Pierre Huyghe proponeva già qualcosa di simile, ovvero la restituzione dell’invisibile oralità del doppiatore nel suo falsificarsi, nel suo divenire codice di massa e omissione. Chiaramente si tratta di un funzionamento molto meno relazionato al rituale biopolitico da cui muove, ma incasella senza dubbio un nuovo funzionamento linguistico, ne designa l’atto, la sua funzione economica: la de-temporalizzazione del corpo dal suo incorporeo utilizzo e a tal proposito un articolo apparso su «Plan C» qualche anno fa intravedeva nello sguardo sorvegliante, un nuovo modulatore esperienziale, una perpetua co-attorialità in una infinita performance.

Sulla sorveglianza come nuovo organo di senso, sul paesaggio suburbano come destituzione dell’umano, e la banlieue come ghetto di controllo, In Order Not to Be Here è per Stratman strumento diagnostico sulla dispotivizzazione coloniale dello spazio, mappatura allargata e ripetitiva di repressione. La città è qui intesa come interazione e trauma, comunità distruttiva (in senso benjaminiano) a richiamare l’espressione di Sennett: «Destruktive Gemeischaft» (Sennett 1977, p. 187) – si dice: il carattere distruttivo non vede nulla di duraturo, proprio per questo vede tutto. La questione resterebbe più o meno la stessa: come l’urbano non sia strumento pacifico di trasformazione sociale, bensì nuova arma, processo reazionario e coloniale di disgiunzione.

altSecondo Kluckhohn (1965) nella tribalità esisterebbe una ricorrenza universale di miti e leggende riassumibile in pochi principali topoi; è documentandosi insistentemente sull’oralità di queste mitologie che The Illinois Parables decide per una impassibile tassonomia dell’abuso. Un’osservazione che non riduce a un carattere propagandistico o puramente causale di un accadimento, ma che si relaziona e significa (nella maniera più positivista del termine) con i fenomeni e le relatività organiche che ne conseguono. Se l’organicità fosse da leggere come fisicità e anatomia del sopruso, il termine osservazione sarebbe sostituibile con dovizia e contemplazione. Ed è proprio in questa imparzialità di lingue ed economia dell’altro che ci sarebbe da intravedere una nuova possibile antropologia visuale dell’assenza – sull’umano, al di là dell’umano, senza l’umano (…e ricordo un Jean Rouch che diceva: «prima ancora che tu possa registrare, io sono già nel tuo film»).

Un’etologia della denuncia, una storiografia illustrata che si disfa persino del classico evento filmico alla maniera di Preloran&Co., insomma: quel che resta dell’umano ora è una tassidermia, un diorama. Pur evitando di rappresentare direttamente gli effetti rovinosi prodotti dal potere coloniale, dal controllo della terra e dalla relativa campagna di civilizzazione (Indian Removal Act, 1830), Stratman racconta un’archeologia di spettri fatta di repressioni, assorbimenti etnocentrici, rimozioni territoriali a danno dei nativi americani costretti a cedere i propri territori e migrare verso le rive ovest del Mississippi (attuali Tennessee, Arkansas, Illinois, Kentucky e Missouri): il cosiddetto Trail of Tears, che ha visto la deportazione di circa 16.000 Cherokee, molti dei quali deceduti durante la traversata. «C’è voluto molto tempo per sapere cos’era lo sfruttamento» (Foucault in AA.VV. 1976, p. 63), ora si tratta di capire come la logica spaziale sia andata modificandosi e come l’ibridazione tra colonizzati e colonizzatori abbia creato nuovi processi psicologici di subordinazione, emancipazione o persino una nuova storia, assorbita o parametrizzata sui dettami culturali del paese colonizzatore: il suolo è trasformato in dimora o come direbbe Chambers: «è proprio nella sanguinosa usurpazione della terra (ritenuto spazio vuoto) il fondamento americano del senso di casa, patria (e proprietà)» (Chambers 2001, p. 156).

L’idea di museificazione, il diorama che a un certo punto Stratman propone, contribuirebbe a irrobustire lo stereotipo coloniale del freak, della selvaggeria tassidermizzata, del nativo come presenza tribale semi-zoologica e collezione folkloristica. Cos’era accaduto allo schiavo Job Ben Solomon? Cosa tentò Sloane durante la sua catalogazione naturale della Giamaica? Tramite un riscatto trasportò Job in Inghilterra per trasformarlo in nuovo oggetto visivo, diorama vivente: meraviglia esotica dei salotti aristocratici. Osservazione esotica (post)coloniale come nuova colonia? Probabilmente. L’idea di comunità tribale è oltretutto qui necessaria per contrapporre la forma flessibile di segmentarietà primitiva con quella rigida dello Stato moderno: «lo sciamano traccia delle linee tra tutti i punti o spiriti, disegna una costellazione, un insieme irradiante di radici» (Deleuze – Guattari 2003, p. 317).

Dunque è proprio a partire da questo sciamanesino (incarnato dal nativo Ravenwolf) che Stratman tenta una catalogazione, una rete di relazioni, una classificazione storica di visioni fantasmatiche e soprannaturali fatta di popoli e oggetti in esilio, catastrofi e scoperte, e c’è sempre questa sensazione di veglia sulle cose, uno sguardo molteplice e collettivo di ricostruzione. Poi Nauvoo, seconda sede della comunità utopica degli Icariani (1848-1857) e l’assassinio di Fred Hampton per mano della polizia di Chicago, un lirico quanto fittizio filmato di ricostruzione dell’FBI dell’incursione nella sede delle Black Panthers. Cinema quindi come apparato di risonanza, ricostruzione; cinema come segmento: «I might be in jail. I might be anywhere» (Fred Hampton).


Bibliografia

AA.VV. (1976): Deleuze, Lerici, Cosenza.
Bourriaud N. (2004): Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milano.
Chambers I. (2001): Culture after Humanism, History, Culture, Subjectivity, Routledge, London & New York.
Deleuze G. – Guattari F. (2006): Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma.
Di Campli A. (2013): Forme di comunità, Carocci Editore, Roma.
Didi-Huberman G. (2010): Un’etica delle immagini, in «Aut Aut» 348, Ottobre-Dicembre, Il Saggiatore, Milano.
Elsaesser T. (2004): Harun Farocki: Working on the Sightlines, Amsterdam University Press, Amsterdam.
Ember C. – Ember M. (1998): Antropologia culturale, Il Mulino, Bologna.
Faludi S. (2007): The Terror Dream: Myth and Misogyny in an Insecure America, Picador, New York.
Foucault M. (1991): La società punitiva, Tracce Edizioni, Livorno.
Foucault M. (1976): Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino.
Greenberg J. (2003): Trauma at Home, after 9/11, University of Nebraska, Press Lincoln and London.
Goodman S. (2010): Sonic Warfare, Sound, Affect and the Ecology of Fear, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, London.
Minges P. N. (2003): Slavery in the Cherokee Nation, Routledge, New York & London.
Sennett R. (1977): Beyond the Crisis, Oxford University Press, London-Oxford-New York.
Tschumi B. (1996): Architecture and Disjunction, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, London.
Virilio P. (1989): War and Cinema, the Logistic of Perception, Verso Books, London – New York.
Zaccaria P. (2004): La lingua che ospita. Poetica politica traduzioni, Meltemi, Roma.


Sitografia

AA.VV. (2013): Destituire la Metropoli, Fip, Roma
The Assassination of Fred Hampton: How the FBI and Chicago Police Murdered a Black Panther in «Democracy Now!»
Plan C, We Are All Very Anxious


Filmografia

Dubbing (Pierre Huyghe 1996)
Figures in a Landscape (Joseph Losey 1970)
Hacked Circuit (Deborah Stratman 2014)
In Order Not to Be Here (Deborah Stratman 2002)
O'er the Land (Deborah Stratman 2009)    
The Conversation (Francis Ford Coppola 1974)
The Illinois Parables (Deborah Stratman 2016)
The Last Angel of History (John Akomfrah 1996)
The Silent Village (Humphrey Jennings 1943)
Those Shocking Shaking Days (Selma Doborak 2016)
Village, Silenced (Deborah Stratman 2012)
What Farocki Taught (Jill Godmilow 1998)


Esposizioni

- Cinema Like Never Before (Kino wie noch nie), Antje Ehmann – Harun Farocki (a cura di), 2006, Generali Foundation, Vienna (Austria).
With works by Hartmut Bitomsky, Gustav Deutsch, Isabell Heimerdinger, Constanze Ruhm, Krassimir Terziev, Nadim Vardag, Klaus Wyborny, Stephen Zepke as well as Antje Ehmann and Harun Farocki.

- Ozone, Philippe Parreno, Dominique Gonzalez-Foerster, Bernard Joisten and Pierre Joseph, 1989, APAC, Nevers (Francia).
- The Enemy Inside Me, Kutluğ Ataman, 2011, İstanbul Modern (Turchia).

11 major works including Women Who Wear Wigs (1999), Never My Soul (2001), It’s a Vicious Circle (2002), 99 Names (2002), The 4 Seasons of Veronica Read (2002), Stefan’s Room (2004), Testimony (2006), Paradise (2006), Turkish Delight (2007), fff (2006-9), Beggars (2010). Hacked Circuit