Luigi Abiusi

Il Pesaro Film Festival a conduzione Armocida si conferma terreno laboratoriale privilegiato in Italia, tra videoteppismi, critofilm, pornografie, scandaglio del florido sottobosco italiano; poi il panorama del concorso ufficiale, davvero bello, quest’anno superiore al passato: soprattutto Les Ogres di Léa Fehner e Per un figlio di Suranga Deshapriya Katugampala, che conferma certa sensibilità delle produzioni di Arcopinto.


Falangi di spettatori, parvenus con i marsupi stretti alla vita e i pruriti nelle braghe allo “Sperimentale”, tutta una vetero-medio-borghesia pronta a scandalizzarsi di fronte al glande di Luca Lionello: invano cercherà il marsupiale immedesimatosi alla scena, attizzato dagli abboccamenti voraci di Nappi, di infilzare la consorte da sotto la parannanza quand’è sera, tra l’acciottolio delle stoviglie e il requiem di Amadeus, che bofonchia d'Italy alla TV, "l’avete presa la ticchetta?"/ "Oh yes".

Queen Kong di Monica Stambrini si compatta mettendo insieme un femminismo ironico, ghignante per una qualche allusa impotenza maschile (un Lionello magnificamente sopraffatto da natiche e suzioni) e la consapevolezza del femmineo, istinto di appropriazione del corpo altrui; con il mito, in versione sonnambolica, l’ancestre proveniente da lontano, dalle profondità della terra, della foresta; ed è tutt’uno con Valentina Nappi, che resta alimentare, burrosa sulla sua pelle elastica, terreno ideale, proprio via lattea, tra cavità e orografia della carne piena, del brillare degli umori; nonostante le purulenze che ora questa ninfa ha incrostate ai bordi delle grandi labbra, venere anadiomene che s’infoia esaltando così il mito-femmina. Un film di retaggi, di inconsci, oltre che di rivendicazioni di pancia, anzi di vulva (il cinema sempre meglio dei dibattiti o dei saggi o delle parate arcobalene in mezzo alla via o all’assise della Pescheria il sabato mattina, dove però c’erano Sergio Germani e Andrea Pastor a riportare tutto al cinema); teso tra film erotico e dell’orrore, che si chiude con la sintesi straordinaria del volto di donna (di genere), Janina Rudenska che tira fuori la lingua (eros) mentre le luccicano gli occhi di rosso (orrore).


Il mistero delle immagini, gli spettri nella notte, gli strumenti di misurazione per ectoplasmi, per sibili larghi, spasmi, si espandono nello spazio sperimentale, i magnetofoni del negromante Cesar Alarcon, che nel 1980 registrano eco di voci scomparse nei luoghi rosselliniani: è La ciudad de los signos di Samuel Alarcon (orfano di Cesar, scomparso all’improvviso tra i laterizi e le muraglie, divenuto spettro a sua volta, anche se c’è chi sostiene di vederlo ancora aggirarsi per i ruderi di Pompei, con i suoi vu meter alacri, i suoi microfoni all’erta nelle sere autunnali), film sognante, militante – nel solco di Erice –; si muove in una concatenazione programmatica di dissolvenze eppure si ferma a interrogare quel che resta dei personaggi, del loro interscambio costante con gli attori, i corpi ospitanti i fantasmi, come una forma cava che per avere senso necessiti di essere occupata, originando così il miracolo flagrante del cinema di Rossellini (uno di questi miracoli quest’anno era in τοπίο di Fabio Mazzola: l'improvviso palesarsi di passeri in chiaroscuro, lo scatto dei cinguettii, l’andirivieni falotico, anarchico eppure fatale delle figure). Alarcon è parte di una sorta di nuovo cinema spagnolo cui corifeo sarebbe Albert Serra e che comprende anche il gruppo di “Los hijos”, tra cui Luis Lopez Carrasco autore di un bellissimo El Futuro, passato a Locarno qualche tempo fa; e Mauro Herce sul cui Dead Slow Ahead ho già scritto qui e su Filmparlato.com.

Molta di questa stessa riflessione teorica appartiene a “Satellite”, una selezione del frastagliato panorama del video italiano (di cui qui non può che esserci solo un resoconto parziale, e che peraltro funziona da occasione per delineare alcune delle traiettorie possibili), su cui c’è l'egida di Mauro Santini e del suo cinema delle essenze, degli elementi in fermentazione, i dirupi che si dipanano lungo il fiume, quello che era stato di Olmi (l’incanto evangelico-barocco di Lungo il fiume) e innerva anche il canto della natura di Piavoli, la Festa, lo stupore ostinato delle immagini, delle forme danzanti. Ma la traccia atavica problematizzata da Santini, teologizzata da Olmi, secolarizzata da Piavoli (proprio nel loro funzionale dislivello generazionale), è solo uno dei modelli sottesi a “Satellite”.

Gli sfugge Luca Ferri (almeno quello di Pesaro, perché ad esempio Una società di servizi è un’altra cosa), autore iconoclasta che celebra il funerale delle immagini (della loro natura di proliferazione estatica e tanto più estetica), arrivando a dare una versione delle origini (di quel momento in cui s’accende l’aggregazione dei significanti) proprio in quel bianco e nero archeologico (usato in Abacuc, in Cane caro, nell’ultimo Colombi in concorso al prossimo “Orizzonti” di Venezia) che coglie una sorta di goffa, gozzaniana, nudità, anzi nullità dell’immagine. Di contro spicca il piacere di una lingua (italiana) e di una sintassi divenute con il tempo specificamente ferriane, dizioni che coprano le esposizioni; qui in Cane caro, proprio di una prosodia, una pronuncia che mentre attualizza gli automatismi surrealisti, (si) dissacra. Il verbo appunto: la predilezione di Ferri per uno scrittore come Bernhard (più volte ribadita) è un indizio importante che dice molto della posizione, della poetica (tra le più definite del panorama italiano) di questo autore rispetto al cinema (ammesso, ripeto, che Una società di servizi non sia già il sintomo di una qualche mutazione, finanche radicale): dalla parte di Bernhard appunto, delle proprietà espressive proprie della letteratura, del parolare, parodiare automatico surrealista.

Cinema di lingua quindi, di discorso (sia pure cinico e auto-dissacrante: in Cane caro la parodia dei costumi corrisponde a un’autoironia verso la pronuncia, i meccanismi di sillabazione, e al piacere per la sintassi), al contrario del principio di contemplazione assunto da un film come Con il vento di Claudio Romano, che è tentativo accorato, piavoliano, di fuga dal discorso e ingresso, galleggiamento nello spazio endogeno della sequenza, del suo farsi; nella zona di coalescenza della ricordanza (all’insegna di un vociare infantile che innerva le immagini), dell’annegamento campestre, celeste, il luccicare nell’intrico delle foglie. Tutta una fenomenologia che viene da Piavoli quanto da Luzi, da Sinisgalli, traslitterati nei termini dell’innocenza, la nostalgia dello sguardo di Romano, la totale preminenza dell’immagine-mondo: il che, volendo semplificare, sarebbe l’esatto opposto del procedimento di Ferri concentrato (con altrettanto rigore e consapevolezza) a tradurre (sterilizzare) le icone e le cose nella dialettica (che è ludica) linguistica.

La professione di fede iconografica, addirittura mesmerismo, si verifica vastamente in Italia oggi e attraverso modalità di trasmissione disparate (come mostra ogni anno “Avvistamenti”, uno dei festival meglio posizionati su queste prospettive): penso a Salvatore Insana, o almeno a quello di Inganni, splendido esempio di film post-piavoliano (per restare alle categorie avanzate prima e magari a uno dei pochi tratti distorsivi del cinema di Piavoli, alcuni interni torbidi, onirici di Al primo soffio di vento), che è specchio di uno specchio d'acqua, superficie sonica ultradensa, colloidale, neppure più acqua, ma sostanza tutta ottica, di attrazione e cattura degli occhi, dello sguardo e delle api. Le quali smaniano, sbattono le ali peste, creano cerchi in questa materia, cioè nel film, in cui si muore e si danza, visto che a tenere il tempo è un’intermittenza di motocicale dentro l’eco continua di questo cosmo, tipico rimbombo di specchio, di stagno, di abisso al di là dello specchio.

Per tornare a Pesaro, la tentazione astrattiva presente in molti di questi autori (che poi è scavo costante, sperimentazione delle possibilità rigenerative delle immagini, al di là degli standard industriali) è esemplare in Menegazzo e Pernisa, in Iconostasi, che è fisiologia e sibilo della luce, non più strumento di evidenza delle forme, ma forma essa stessa, espansa, ruminante, agente dalle profondità dell’ente. Si tratta di una sinfonia cromatica (del tipo di quelle teorizzate, forse realizzate ma andate perdute dei fratelli Corradini nel pieno dell’entusiasmo futurista: da lì derivarono molte “metafisiche della luce”, dall’universelle Sprache all’underground americano, cercando di trascendere dal/nel cinema), una sinfonia frutto di nude e rudi condizioni di luce apparenti e sonanti in uno spazio-tempo pre-figurato (prima che si faccia figura) come originario e autentico, per via di vuoto, eco, buio. La stessa tentazione rinvenibile in uno dei lavori più belli e affascinanti della coppia, Rothkonite, dove le chiazze di colore dei dipinti di Rothko, viste attraverso un filtro di disturbi in VHS, retrocedono: il movimento è proprio prossemico, dalla tela, indietro, alla sala del museo. Il transito, che scandisce la tentazione, è, costante, dagli agenti astratti (luce, colore, linea, curva, al limite) a un minimo di forme, e viceversa, all’interno della metrica dettata dal decoupage e dal sonoro di Chapel 5 di Morton Feldman, miracolo post-faurèiano, post-idillico, l’unico o uno dei pochi brani che sfugga a una logica di estenuazione, di dilatazione tonale dell’opera di Feldman e tanto più della serie dedicata a Rothko. E l’iconostasi, la tensione tra ferme (spesso rafferme) icone e agenti luminosi è la dialettica all’origine anche di Obsolescenza programmata, dove la luce reagisce alla stasi, al mortuale dei volti; esce fuori, tracima in virtù della sua dinamica radiale, dagli spiragli, dalle fessure delle cornici, tra i rosari, le camelie che appassiscono sul canterano tarlato, quasi rivitalizzando sagome frankensteiniane. Ma se il tempo che si prende Obsolescenza programmata è forse eccedente il tempo che ci vorrebbe a dimostrarne il teorema, Pscicopompo, tra le ultime cose di Menegazzo e Pernisa, si prende il tempo necessario a svolgere, rivolgere le pieghe di una psiche dolente, nell’arco di un tramonto, di brume impenetrabili, e di un’alba di speranza. Virando verso una prospettiva soggettiva, psicotropa, i due registi sono a loro agio anche e forse di più con un minimo di narrazione, del resto in forme essenziali (straordinaria la presenza coprente, amniotica della nebbia), ombre, foschie di corpi nudi alle prese con nascondimenti, desolazioni, frane di psiche e amore a cui segue un inizio (delle possibilità cinematografiche), ancora in un principio di luce.

Una precisa estetica delle superfici, delle materie tarlate, marcenti in essenza e coreografia; disposizione di cose nel quadro (affrescato), rese significative dal passare del tempo, è quella di Schirinzi in Deposizione in due atti; ostensione di cose mucide, “barocche” (in senso ermetico), intrise dal sentimento del tempo, che fa brulicare sensualmente, pullulare gli scorci in odore di fiori deposti, decomposti davanti agli altari e di incenso, di acqua santa; un che di ecclesiale, per quanto spogliato del liturgico che non sia il mistero dei resti bizantini, colti nella desolazione, nel randagismo di un’umanità, una stirpe decaduta, quella appunto dei Resti di Bisanzio, che è film sacrificale, forse programmaticamente, ma avrebbe meritato ben altro rilievo nel panorama italiano.

Su questo versante “monumentale” La tomba del tuffatore di Federico Francioni ha sapore antropologico, civico: documentario fatto di rupi, ponti, vie rampicanti percorse da un turismo anche ottuso; che delineano la struttura circuitale, conchiusa del film, cercando di andare oltre l’oleografico pur mostrando una specie di resistente, etico incanto dell’ecosistema e della Storia. In questo senso distante (ma non in senso sminuente) da un film che comunque deve essere preso come riferimento su questo terreno antropologico, reliquiario, che mi pare uno dei pochi ambiti veramente interessanti in cui può muoversi oggi la macchina da presa documentale (il senso, positivo, è quello dato da Benjamin alle rovine): Anapeson di Francesco Dongiovanni (proiettato a Torino quest’anno), che è film dall’incedere olmiano, angelopousiano, fuori dal tempo, anzi dopo-il-tempo, dopo la Storia, quella fase che infine, fortunatamente, si confessa silenziosamente spaziale, mitopoietica; rudere coperto dalla polvere del tempo (non troppo diverso da quello di Alarcon), in cui riecheggia il vento pronunciato dagli spettri, bisbigliato da ciò che era stato, e che è ora divenuto metafisica di erbe selvatiche, dei pavimenti che ne sono invasi, gli atrii, gli archivolti meravigliosamente decrepiti, e i muri.