Lia Miceli e Matteo Marelli
Ciò che resta, dopo aver conversato con Chiara Guidi, è un’idea di teatro nel suo rigore pieno e necessario.
L’occasione per incontrarla ci è stata data dallo Spazio Matta di Pescara che ha ospitato La cattedrale sommersa: laboratorio teatrale di improvvisazione vocale su frasi del Guaritore galattico di Philip K. Dick a cui ha fatto seguito una performance finale aperta al pubblico.
Fare: sollevare.
Fare il verbo. Non dire. Fare. È un lavoro di singolarità condotte verso una forma corale.
Partendo dalle parole di Philip Dick un gruppo di persone cercherà di sollevare un’unità sonora nell’arco di 20 minuti. Sollevare.
Non una cattedrale sommersa, come ha fatto Glimmung, ma un suono.
(Chiara Guidi)
Si può parlare di La cattedrale sommersa come di un’azione sonora che va al di là dell’identità? Il singolo deve ripensarsi come coro, e il coro deve farsi essenza fonica. Un’azione che quindi mette in crisi il principio di rappresentazione. Qui il suono diventa personaggio e l’immagine passa interamente nel sonoro.
Sì, è un’azione sonora, e in quanto tale va al di là di questioni di natura psicologica. È chiaro che c’è un oltrepassamento dell’identità nel momento in cui il singolare diventa plurale, essendo un coro. Ma se voi adoperate la parola “identità” mi riconducete a una problematica di natura esistenziale. Qui si assume fisicamente la trama del Guaritore galattico di Dick. Come Glimmung aveva chiamato da tutte le galassie persone esperte per poter sollevare una cattedrale sommersa, allo stesso modo ci siamo ritrovati al Matta – arrivando da posti diversi; ciascuno con la propria abilità – per fare un’azione il cui scopo era quello di sollevare una cattedrale sonora. Essendo un’azione sonora si ha a che fare con lo statuto della musica. E la musica non è un’arte rappresentativa, ma manifestativa. Tutto ciò, declinato in termini di messinscena, porta a una sorta di schizofrenia dei sensi: mentre ascolto, vedo.
Nella Cattedrale Sommersa lo spettatore – avvolto nel fumo, sprofondato nell’oscurità – si sente smarrito, perde le coordinate spazio-temporali a cui è abituato ad aggrapparsi gelosamente. In quale tempo e in quale spazio ci troviamo? Che cos’è il buio per lei? Che peso ha nella sua ricerca teatrale?
Con una domanda così, nella maniera in cui me l’avete posta, allora vorrebbe come dire che io uso sempre il buio. Allora il buio crea il teatro, ma non è tanto questo. In Philip Dick è necessario, perché questi corpi devono diventare dei corpi sott’acqua. E la domanda da cui sono partita è stata: “come faccio a rendere questa idea?”
Vorremmo proseguire un attimo il discorso sul coro, mettendo in relazione la sua ricerca con quella condotta dal Teatro delle Albe. I vostri percorsi, spesse volte, si sono specchiati, anche incontrati, com’è successo con Poco lontano da qui. Ecco, sia lei che Martinelli e Montanari, nelle esperienze laboratoriali, vi state confrontando con l’idea di coralità. Scrive Martinelli in Farsi luogo: «il Novecento che abbiamo alle spalle è un secolo monologante [...] pensare il coro, oggi, agirlo al centro della scena» può far tornare «alla questione politica per eccellenza, al legame di sangue del teatro con la società» (2015, p. 24). Anche lei pensa al coro come ad un’occasione per ripensare un teatro incarnato nella polis?
No, no. Io non metto l’accento sul coro in questo senso, inteso quindi come Filippiche. Preferisco pensarlo come a un’orchestrazione di voci. Il mio problema non parte dal coro, ma dall’improvvisazione: come può il teatro porsi un problema d’improvvisazione musicale. Quindi non ha nulla a che fare, in questo senso con la problematica tragica. Sono tutte questioni che possiamo raggiungere, ma il problema mio iniziale è l’improvvisazione. La cattedrale sommersa è conseguenza di questa riflessione.
Le domandavamo questo perché il suo teatro nasce da un confronto con il testo, comincia come esercizio di lettura. E il leggere, insegnava Ezio Raimondi, da esperienza individuale e silenziosa si rivela invece una lezione di civiltà, un esercizio di etica. Diceva Raimondi che «un testo è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita»; leggere comporta quindi una forte responsabilità, cioè avvertire l’altro in sé. Volevamo quindi chiederle se e quanto sente tutto ciò; e come condiziona il rapporto che instaura con i testi con cui si confronta.
Leggere un testo significa che hai tra le mani un libro e in teatro quel libro sparisce. Quindi non c’è nessun tipo di relazione in questo senso tra la pratica teatrale e quella della lettura. Il teatro è un’altra tecnica. Questa tecnica del teatro prende le parole del libro e le fa camminare sul palcoscenico; quindi mette in atto un’idea simile al sollevamento. Per far questo si può ricorrere a diverse strategie offerte dalla macchina teatrale: le luci, il suono, la voce, la presenza attoriale... tenendo sempre presente che il testo non dev’essere sovrano. C’è sì la decisione di mettere in scena un testo, ma soprattutto ciò di cui tu sei alla ricerca all’interno di quello scritto, cioè di quel qualcosa che ti riguarda; e che, proprio perché ti riguarda, deve diventare qualcosa di antropologicamente e universalmente valido. Poi sono troppe le parole di un testo. E le parole sono sempre anfibologiche, rivelano qualche cosa d’interiore rispetto a quello che dicono. La parola non si esaurisce nel significato che porta. Quindi il lavoro di interpretazione comporta il comprendere perché quello e non un altro testo, e cos’è che è urgente per te, qual è la necessità per cui prendi quel testo e lo metti in scena e in che punto del testo cadi. Non posso prendere uno scritto nella sua totalità: io cado in un punto, e lì dove cado abito. Abito con un’idea, che quindi mette in campo un’azione, cioè la drammaturgia: l’azione è fare il fare. Il dramma è fare. L’elemento tragico per eccellenza è l’azione. Quindi c’è questa relazione molto forte tra la decisione di prendere un testo e metterlo in scena e la necessità della tua esistenza. Per cui ogni atto estetico diventa una questione etica, perché non sei più tu che sei lì, ma quell’io diventa un noi, per cui io è un altro come diceva Rimbaud.
Durante la lettura scenica di Tifone – a cui ci dedicammo tempo fa – lei cestina letteralmente il testo. Un gesto semplice che esprime un pensiero forte, un’idea artaudiana: quella di dire basta all’inganno dell’intreccio narrativo, per potersi così liberare dalla dittatura del significato. E ci sembra che queste suggestioni proseguano nella ricerca che lei sta conducendo sulla vocalità, restituendole materialità: far vibrare la violenza della voce contro l’oppressione del discorso articolato.
Posso dirvi che per me mettere il testo in un cestino significa: questo l’ho fatto e si va avanti. Tutto quello che dite è vero, ma è più interessante se lo dite voi, anziché io; perché io sono molto concentrata sull’azione, quindi per me è difficile poter dire altro rispetto all’azione stessa. Io non ho un’analisi del mio lavoro in chiave scientifico-teorica.
Ecco, quando provammo a scrivere di Tifone partimmo riprendendo una domanda che rimaneva senza risposta. Ora proviamo a rivolgerla a lei, convinti che saprà proseguire dove invece noi ci fermavamo: «Quanta violenza può contenere un soffio? Quanta disperazione un sussurro?»
Non so se adopererei la parola “disperazione”. Io direi, proprio perché per me è un problema di tecnica: può un suono disarticolato commuovere? Questa è la questione. Così come i versi di un uccello, o di un qualsiasi altro animale mi prendono, mi toccano, come fa a toccarmi la meccanica della bocca umana? Questo è un problema del teatro. E questo è al centro di tutta la mia ricerca teatrale. In La verità retrograda della voce riflettevo sul fatto che per educare la voce sia necessario ascoltare e imitare. Un nutrimento di immagini per una voce che deve avere una forma quando esce e deve poter dire non perché succube al testo, ma perché dice di per sé: è in potenza un dire; è un linguaggio la voce.
«Giocare è una cosa seria» diceva Bruno Munari. Il gioco è ricerca, sperimentazione e apprendimento dove affermare se stessi. Nei laboratori munariani non si spiega come si fa o cosa si deve fare, vi è una semplice azione-gioco che stimola il bambino al fare, attraverso l’imitazione, lasciandolo libero di sperimentare. Ci sembra che queste riflessioni si possono bene intrecciare con le ricerche teatrali che sta conducendo con Puerilia. Nel suo progetto vi è un intento educativo?
Per me è una necessità di ricerca artistica quella di avere come pubblico il bambino. Non ho delle finalità di ordine pedagogico, però è vero che qualunque gesto qualcuno di noi compia è un atto educativo, perché comunque conduce fuori una presa di posizione, per cui c’è la responsabilità di un gesto. Io non ho la finalità di ottenere qualcosa, anzi mi pongo in atteggiamento di apprendimento. Vi faccio un esempio molto semplice: è necessario per i bambini conoscere la fiaba, la favola e raccontargli favole. E spesso vogliono che gli si narri sempre la stessa. Allora io vi chiedo: quanti chilogrammi di Cappuccetto Rosso fanno bene a un bambino? Questo non lo sapremo mai. È un problema d’arte, l’arte della fiaba. Quello che a me interessa è confrontarmi con la consapevolezza di un pubblico che non sa di essere infantile. Un pubblico che vive prima del linguaggio. A me interessa un pubblico “adulto” prima del linguaggio e l’unico modo che ho per sperimentare questa intenzione è quello di stare vicino ai bambini. Il problema principale è capire cos’è il teatro che cerco.
Bibliografia:
Martinelli M. (2015): Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti, Cue Press, Bologna.
Titolo:La cattedrale sommersa
Ideazione e regia: Chiara Guidi
Assistente alla Regia: Chiara Savoia
Con: Carmela Caiani, Mariangela Celi, Maria Antonietta Ciarciaglini, Monica Ciarcelluti, Giorgia Console, Paolo Grazzi, Mauro Mancinelli, Rita Mosca, Olga Merlini, Alessandro Pezzali, Riccardo Santalucia, Annamaria Talone, Alessio Tessitore
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio 2015
Visto il 30 luglio 2016 allo Spazio Matta
L’evento è stato promosso da “ARTISTI PER IL MATTA”, a cura di Monica Ciarcelluti
Si ringrazia Mazen Jannoun per le foto gentilmente concesse.