Fabio Lusito
Life’s a bitch and then you die
That’s why we get high
‘Cause you never know when you’re gonna go
(Life’s a Bitch, Nas ft. AZ, 1994)
New York, 1977. Più precisamente Bronx, South Bronx. I primi confusi fotogrammi, che mettono insieme immagini di repertorio ed una New York odierna, accompagnati dalle parole e dai suoni di un rap deciso, racchiudono il significato essenziale di The Get Down: la genesi dell’Hip Hop, una cultura che vede in quei giorni ed in quei luoghi i suoi albori. Un fenomeno che viene fuori dalla disperazione, dalle macerie, materiali e morali, di un Bronx devastato da povertà e delinquenza, ma che ha sempre saputo mantenere sgargianti i suoi colori, di cui emblematico, seppur in contrasto, è il nero della pelle di chi è anima di quelle strade, di quei campetti, di quei palazzoni in fiamme, di quei barber shop, di quel ghetto. Bronx che è vita, è disperata sopravvivenza, che è allo stesso tempo morte, ma pur sempre con quei colori, con i suoi suoni, con i suoi limiti.
In tutto ciò, The Get Down è metaforicamente il treno metropolitano che appare subito dopo la confusione (The Get Down, s01 ep01), con caratteri cubitali in wild style graffiti, simbolo e icona della via di fuga, la via di uscita che nella serie TV prodotta da Netflix rappresenta il fine ultimo dei protagonisti principali. Ma al di là delle teleologie della sceneggiatura, il primo piano essenziale è riservato al racconto del nascente fenomeno Hip Hop, cui sfondo necessario è quello del Bronx, del South Bronx, del reale e schiacciante dato di fatto del ghetto, e proprio lì, a New York, “capitale” del mondo, e nel suo cuore, leggermente a nord della downtown di Manhattan. E tutto ciò è ancora, o meglio innanzitutto, la rappresentazione, la messa in immagine della poesia (quella dei rapper) e della creatività – nelle discipline di cui si nutre tale nuovo movimento – che fuoriescono dal caos come armonia sprezzante di ciò che lascia alle sue spalle, quasi dimenticando di esserne ancora inghiottita.
Baz Luhrmann, principale produttore della serie e regista del primo episodio, aveva già abituato il pubblico alla rivisitazione delle narrazioni letterarie e delle grandi opere in chiave postmoderna – basti citare William Shakespear’s Romeo + Juliet, Moulin Rouge! e il più recente The Great Gatsby. Con The Get Down quella che si porta sullo schermo è invece una delle «grandi narrazioni», per dirla con Lyotard, della postmodernità stessa. Una narrazione che non giunge a conclusione con la postmodernità, come Lyotard vorrebbe (Cfr. Lyotard 2012, p. 5), bensì è paradossalmente avviata in essa e per tramite di essa, e che, del postmoderno, è esaltazione e massima raffigurazione. Una narrazione che è in grado di essere nell’effettivo àncora di emancipazione e percorso di formazione, meccanismo di avviamento verso una realizzata liberazione.
Nei soli 6 episodi di cui si compone la serie, ma di cui è già annunciata una seconda stagione per il 2017, a Luhrmann, ed ai registi che hanno diretto con lui il restante lavoro (Ed Bianchi, Andrew Bernstein e Michael Dinner), sono ben presenti tutti i capitoli che, cinematograficamente, hanno composto le singole particelle di questa più grande narrazione: al di là degli ambienti, delle sonorità e dei temi già incontrati in Do the Right Thing di Spike Lee, è costante il richiamo visivo alle sequenze di Wild Style di Charlie Ahearn, vero caposaldo nella trattazione di tali tematiche, prodotto di culto per b-boys, djs, rappers e writers di ogni generazione; non è indifferente, d’altronde, nel riferimento globale tanto alla cultura Hip Hop quanto a quella postmoderna, il Ghost Dog di Jim Jarmusch, nel tramite di un’appariscente rievocazione dei principi orientali del Bushido o nell’utilizzo, da parte di Shaolin Fantastic (Shameik Moore), di una piccola katana arma da brandire ai fini della sopravvivenza.
La metanarrazione che nelle sequenze della serie innesca, produce, esalta e afferma sé stessa, resta quella dell’Hip Hop. Una cultura che, negli stessi anni, viveva di diretta e forte concorrenza di altri ambienti, con lo svilupparsi tanto del punk quanto delle più disparate altre culture, sempre nel contesto di una New York più ampia e più totalizzante del solo Bronx. Hip hop che viene letteralmente incarnato da tutti i giovani protagonisti, membri di una crew, in cui ognuno si dedica ad alcune delle quattro fondamentali discipline proprie e caratterizzanti del movimento: il djing, la breakdance, il rap ed il writing. Zeke, protagonista principale, scrive rime e aspira a diventare un acclamato Master of Cerimonies, un MC; Rumi è un writer, che si mette a rischio ripetutamente fino all’ossessione riempiendo di graffiti i vagoni metropolitani ed i muri di cemento dei palazzoni della zona; Shaolin Fantastic, poi, si identifica ancor più completamente in una fusione delle discipline che lo vedrà sfociare definitivamente nel djing, e che iconizza più di chiunque altro il vero e proprio culmine dello spirito di quegli anni, tra affari di microcriminalità e sogni che passano attraverso le dita di una mano nell’arte dello scratch.
Deus ex machina di tutte le vicende che riguardano i protagonisti, insieme all’ambiente circostante del ghetto, è la trasposizione cinematografica di GrandMaster Flash, uno dei “fondatori” della cultura Hip Hop. Con lui, gli altri due grandi protagonisti e motori immobili di questa genesi, Dj Kool Herc e la Zulu Nation di Afrika Bambaataa. Ma è GrandMaster Flash il conduttore dei giochi, il dio tangibile che tutto rende possibile, che realizza l’onirico e materializza la speranza. Una divinità, in questa narrazione, che si rivela per la prima volta in una epifania musicale, nella scena in cui, adorna di appariscenti abiti del tempo, appare la sua schiena china sulla consolle, mentre irrefrenabile e scatenato lascia suonare il beat di Apache della Incredible Bongo Band (s01 ep01). A questo uomo divinizzato, si deve origine, senso e destinazione. Per le sue mani, per la sua etica, per la sua poetica, passa il seme che è il seme della genesi di tutto, e che viene seminato nel terreno più che incoltivabile, rivale della vita e della creazione/creatività delle strade del ghetto, del non-luogo circoscritto da cui è allontanata ogni speranza.
È il terreno proprio del caos, lo sfondo infernale da cui la semidivinità deve inventare la vita, al culmine del paradosso, e da cui non può che sfociare una poetica drammatica, che racconta quelle strade, quelle sciagure, le strategie di sopravvivenza spesso incrociate con la criminalità, perché il ghetto dà e toglie. Talenti sprecati, che le necessità della vita, quella che prende stomaco e responsabilità insieme, mettono in continuo rischio di sviluppo. Le stesse necessità che radicalmente restringono il campo delle possibilità, e che divengono rabbia, furia verso quella casa-ghetto che è stata nido, ma da cui si deve ad un certo punto prendere il volo. In questa dimensione culturale, si muovono tutti i protagonisti circondati dall’alone magico del black dei ritmi. Gli spazi e i tempi sono quelli di una comunità-rap che esercita la propria volontà di potenza: una perenne colorata rivolta di murales e urla di emancipazione.
Queste strazianti vicende, che in modo non mascherato sono storie di disperate redenzioni, vengono costantemente immerse in una fotografia che fa del contrasto la sua esaltazione: i colori degli abiti vistosi e luccicanti, delle vetture sgargianti e delle vetrine caleidoscopiche sono incastrati all’interno di uno scenario quasi apocalittico, che trova il suo principale riferimento visivo nel saturo grigiore dei palazzoni e nel caldo colore di fiamma. Ma l’immagine, all’interno di The Get Down, non si impregna soltanto di questo contrasto. A spadroneggiare è l’idea del movimento, che ha la sua perfetta realizzazione nella messa in scena della corsa e del ballo: il ballo impazzito, travolgente e coinvolgente dei b-boys che volano su passi di breakdance. Una immagine che trasmette la potenza e l’energia dell’hip hop.
Il movimento è potenziato dall’accompagnamento ossessivo della musica funk, disco, breakbeat e rap. Non c’è da meravigliarsi se ad un certo punto ci si ritrova ad ondeggiare la testa a ritmo nel pieno della visione: tramite la musica con The Get Down si sfonda lo schermo e ci si immerge pienamente all’interno delle vicende, attraversati dal groove e dalle sensazioni trasmesse, per una visione non statica, ma partecipata. D’altro canto, in questo è preziosissima la collaborazione del rapper Nas (al secolo Nasir Jones), produttore esecutivo e curatore della colonna sonora, oltre che autore delle rime rappate dal giovane Zeke e consulente di eccezione per la riuscita della serie. Ad intervenire in tali casi è stato poi lo stesso GrandMaster Flash, imprescindibile resoconto umano ai fini della realizzazione di tale impresa genealogica. Nelle sue parole è il senso trionfante della coordinata sinergia tra immagini e suono: «Manifestare un unico ritmo infinito. [...] Io... conosco... il tempo» (s01 ep02). Si realizza così, alla perfezione, quella derivazione dell’immagine-movimento dall’immagine-tempo in accordo con quel «cinematografo interiore» (Bergson 2002, p. 250) bergsoniano che immola il soggetto nell’armonia di quel che accade sullo schermo.
Nella sceneggiatura dei diversi autori (tra cui Luhrmann), coesistono le due narrazioni: le aspirazioni dei ragazzi coinvolti nelle trame del ghetto con la genesi della cultura hip hop; in un meccanismo che dalla genesi porta al trionfo dei protagonisti e della musica. I fili dei due discorsi si intrecciano nel contesto di un unico «gioco linguistico» e volgendo così lo sguardo a quell’ineffabile verbale che è strutturato precipuamente nel suono, nel movimento, nel corpo, nel colore, nel feeling. Pare, in certi casi, che con la potenza della musica, dell’energia dell’ambiente che viene a crearsi in numerosi passaggi, la visione, ormai privata della parola, sia affidata a questo stesso ineffabile che «mostra sé, è il Mistico» (Wittgenstein 2009, p. 109). Dietro la sinergia armonica di questo tipo di espressione, vi è senz’altro un valido lavoro di messa in scena del non-detto, nell’amalgama completa che genera The Get Down e ne fa una serie in cui tutte le componenti combaciano e si affiancano, innanzitutto attraverso la strabordante presenza della musica.
Quanto si esaudisce con il lavoro di Luhrmann è dunque l’aspirazione a raccontare le vicende, i luoghi e i protagonisti di una cultura che ha a suo modo rappresentato il canto di liberazione di diverse generazioni, avviandosi così a decretarne un tributo esaltante. Nell’immaginario duro e crudo della strada, come rappano Nas e AZ, la vita è una «bitch» spietata e con poche vie di scampo; forse, con The Get Down si giunge a una conclusione lievemente diversa, ma pur sempre colorita: life’s not a bitch, life is a beautiful woman / you only call her a bitch ’cause she won’t let you get that pussy (Daylight, Aesop Rock 2001).
Bibliografia
Bergson H. (2002): L’evoluzione creatrice, Cortina editore, Milano.
Chang J. (2009): Can’t stop, won’t stop. L’incredibile storia sociale dell’hip hop, Shake.
Wallace D.F. – Costello M. (2000): Il rap spiegato ai bianchi, Minimum Fax, Roma.
Lyotard J. (2012): La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano.
Wittgenstein L. (2009): Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino.
Discografia
Bongo Rock (Incredible Bongo Band 1973)
Illmatic (Nas 1994)
Labor Days (Aesop Rock 2001)
Filmografia
Do the Right Thing (Spike Lee 1989)
Ghost Dog: The Way of Samurai (Jim Jarmusch 1999)
Moulin Rouge! (Baz Luhrmann 2001)
The Great Gatsby (Baz Luhrmann 2013)
Wild Style (Charlie Ahearn 1983)
William Shakespear’s Romeo + Juliet (Baz Luhrmann 1996)
Serie Tv
The Get Down (Baz Luhrmann – Stephen Adly Guirgis 2016-in corso)