Raffaele Cavalluzzi

altIl giovane campione di lotta libera Mark Schultz (Channing Tatum) è un uomo solo. La sua solitudine, dovuta all’assenza dalla sua vita dei genitori subito divorziati, sembra (di fronte agli specchi dei bagni in cui spesso si rifugia a guardare la propria immagine che gli pare forse sempre inespressiva) quasi bloccarlo psicologicamente, sin dall’infanzia, nella forza e nella violenza repressa del suo corpo muscoloso, cresciuto – potente e ottuso – nella pratica dello sport sotto l’affettuosa guida di Dave (Mark Ruffalo), suo fratello maggiore, che gli ha fatto da padre e da partner anche dopo essersi sposato e aver messo su famiglia.

Quasi al culmine della sua carriera raggiunto dalla vittoria nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 (Foxcatcher – Una storia americana, diretto da Bennett Miller, è basato su una storia vera), Mark pare però trovare dall’esterno di un cosiffatto limite un riscontro positivo a quanto, con la volontà e l’instancabile esercizio, silenziosamente e disciplinatamente ha coltivato come “virtù” per il conseguimento del trionfo olimpico. Infatti, un ricco e misterioso magnate, erede unico di una dinastia che è leader tra quanti dominano da sempre in America l’industria bellica e quella chimica, lo convoca nella sua splendida tenuta nel cuore della Pennsylvania (appunto “Foxcatcher”) per porlo sotto la sua protezione in vista dei “mondiali” e poi di Seul 1988. John du Pont – è il magnate – ama definirsi (e farsi chiamare) ornitologo, filatelico, filantropo, e soprattutto mentore e team-coach di valorosi giovani atleti, impegnati – dal suo punto di vista – a ottenere il riscatto dell’onore della nazione americana (siamo, dopo i frustranti anni Settanta, in piena epoca reaganiana). La sua mitomania, fatta di sfrenato egocentrismo e di rozza arroganza di classe, è connotata in realtà da una difficile condizione edipica: anch’egli è sostanzialmente solo e infelice, giacché succube della vecchia madre (Vanessa Redgrave), che con i suoi modi e le sue manie da nobildonna ottocentesca (i cavalli di razza, la caccia alla volpe, il disprezzo per uno sport plebeo come il catch) non sembra averlo mai veramente amato nella sua sgraziata debolezza. Rovescia allora sui suoi sottoposti (e Mark è l’eletto fra di essi) tutta la sofferenza che è capace di infliggere dall’alto del suo schiacciante privilegio sociale. Del resto, lo stesso Dave, dapprima recalcitrante a scardinare la propria famiglia dal territorio d’origine, per seguire anche lui le profferte dell’inatteso mecenate si trasferisce a Foxcatcher, ponendosi, ma con dignità, un realistico obiettivo di consolidamento economico del destino della moglie e dei teneri suoi figlioletti.

Tuttavia, mentre Mark è spinto dalla sua prona sudditanza (e, a ben vedere, dalla stessa ideologia sportiva virtuosa dell’altro, che in fondo non gli è estranea) a lasciare intaccare la sua integrità fino al limite del degrado (la morbosità di John sfiora, nei frequenti contatti d’allenamento, una latente attrazione omoerotica, e lo nutre finanche all’abitudine dell’alcol e della cocaina), Dave resiste nel proteggere il fratello fino al punto da spingerlo a riguadagnare il decoro perduto. Egli, Mark, che ha sfiorato l’insuccesso e l’ignominia, alla fine decide di licenziarsi dall’ossessiva presenza e dall’interessato favore di du Pont, quando questi, con l’improvvisa morte della madre, si è liberato finalmente dal peso intollerabile delle manie di altri tempi di cui era gelosissimo. E John, tornato allora solo, in un gelido mattino innevato, raggiungerà armato Dave presso il cottage dove è alloggiato con i suoi, e lo ucciderà. La hybris si chiude così con il sacrificio di un uomo normale e innocente, e con il disvelamento dell’insopportabilità dell’angosciosa solitudine degli sconfitti, giacché Mark, tra l’altro, torna per sempre a chiudersi forse nell’oscuro se stesso.

La presunta fierezza americana, dal suo canto, è commentata (ma anche alienata) dal gelo e dagli assoluti silenzi di un territorio che resta quanto mai perso e fermo nel tempo (il film si avvale tra l’altro di una colonna sonora dalle calzanti pennellate musicali di Rob Simonsen), mentre lo scacco di una grifagna spietatezza, e dell’angoscia senza fine che ne deriva, è affidato per du Pont a una strepitosa interpretazione, si direbbe shakespeariana, di Steve Carell. Bennett Miller, ancora una volta puntualissimo (come nei precedenti Truman Capote e L’arte di vincere), vede, con John (non a caso “Aquila d’oro d’America”), un’ombra di più autentica nobiltà piuttosto nel libero volteggio nel cielo degli uccelli (che sono, con la “lotta”, la sua più privata e contraddittoria passione), che non negli eleganti, poderosi quadrupedi allevati nella stalla materna, che, allo sguardo dello psicopatico, sanno soltanto “mangiare e cacare”.


Filmografia

Truman Capote - A sangue freddo (Capote) (Bennett Miller 2005)

Foxcatcher - Una storia americana (Foxcatcher) (Bennett Miller 2014)

L’arte di vincere (Moneyball) (Bennett Miller 2011)