Matteo Marelli
«Chi sarà a raccontare. / Chi sarà. / Sarà chi rimane». Questi versi di Giorgio Bezzecchi (originariamente in “romanes”), ripresi da Fabrizio de André per la chiusa di Khorakhané (A forza di essere vento), funzionano come postilla anche per I ricordi del fiume, il documentario di Gianluca e Massimiliano De Serio presentato all’ultima “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica” di Venezia in una prima edizione di 140’ e proposto ora in sala in una nuova versione di 96’ che meglio mette a fuoco il gesto registico dei due gemelli.
Il film, come il brano, si confronta col tema della migrazione e dell’emarginazione; l’occasione di riflessione è lo sgombero del Platz, la più grande baraccopoli d’Italia cresciuta incontrollata alla periferia di Torino, sulle rive del fiume Stura. Un pozzo di storie d’ordinaria povertà, che raccontano di vite arrangiate disposte a qualsiasi rimedio per una parvenza di quotidianità (ché, come dice Giovanni Lindo Ferretti,: «se difetta o manca la sostanza tocca alla forma essere limite invalicabile all’esistenza. Preziosa comunque»). Anche di fronte alle macerie che avanzano si cerca comunque di salvaguardare l’idea stessa d’umanità.
I De Serio si avvicinano a questo brulichio di presenze che ha gremito la periferia nord di Torino con tatto, sensibilità, discrezione, pudore (quelle qualità già dimostrate in Sette opere di misericordia); lo fanno senza idee preconcette, soprattutto in termini di messinscena (e la doppia versione del documentario sembra confermare questa ipotesi di film che s’aggiusta nel suo farsi); sanno di essere degli estranei, di aver bisogno di qualcuno che gli indichi un sentiero o un percorso, che li guidi nella perlustrazione. E questo qualcuno, all’inizio, è un bambino, che i due registi seguono e da cui sembrano ricevere indicazioni di sguardo.
Quella che si delinea, da subito, è un’idea di “cinema di prossimità”, inteso quindi come dispositivo relazionale, dove l’istanza filmica è prima di tutto esperienziale. L’immagine è una zona di contatto, la traccia di un rapporto di conoscenza, la visualizzazione di un incontro, possibile soltanto partendo da un gesto di reciproca generosità, di condivisione. La regia si lascia prendere da un moto di corrispondenze: aprendosi agli stimoli che riceve, interagendo con ciascuna delle persone con cui si trova ad attraversare uno spazio e un tempo comuni.
Messi davanti all’imminente scomparsa, per gli abitanti del campo nomadi si profilano due strade: quella del rimpatrio in Romania, o il trasferimento in appartamenti ad affitto progressivo. E una volta viste prendere confidenza coi nuovi ambienti a queste persone non si sa onestamente cosa augurare; estranee, da sempre, alle logiche, e quindi alle regole, di uno stile di vita che per abitudine riteniamo “socialmente accettabile”, quando, come ci mostrano i De Serio, si trovano costrette a reinventare la loro idea di abitare in funzione delle nuove sistemazioni, ecco che di riflesso ci arriva tutta la violenza normativizzante dei nostri spazi domestici. Persone che da sempre hanno rimodulato la propria dimora a seconda della necessità, adesso si trovano costrette a ripensarsi per poter essere conformi agli standard abitativi impostigli. L’immagine che ci arriva, quindi, è quella di una casa come struttura disciplinare. E lo spettro che avanza è quello che, per esempio, da tempo ci mostra anche Pedro Costa con il suo cinema (per la prima volta, ora, nelle sale italiane, con Cavalo Dinheiro): di uno sradicamento da cui non potrà che dipendere l’alienazione urbana.
La forza del gesto registico dei De Serio è quella di muovere queste riflessioni senza predisporre la scena, ma, come evidenziato da Giulio Sangiorgio sulle pagine di FilmTv, «lavorando d’accumulo». I registi non hanno un nemico da attaccare (la stessa polizia, che interviene per rendere effettivo lo sgombero, è ripresa senza inquadrature giudicanti o eccessi didascalici – anche se l’avvertimento che un uomo del campo dà al bambino con cui sta chiacchierando, dopo che questo gli ha confidato di voler fare da grande il poliziotto, lascia intuire come il confine tra ordine pubblico e derive securitarie sia spesso labile: «Rispettare la legge, applicare la legge ma non abusare della legge»), e neppure una tesi da dimostrare, cosa che avrebbe potuto portare a una schematizzazione del libero fluire delle storie raccolte nel corso di un lungo periodo di riprese:
Di solito, fin dai sopralluoghi, progettiamo la struttura dei nostri film servendoci di disegni veri e propri, più o meno astratti.[...] In questo caso, invece, non abbiamo fatto dei veri sopralluoghi, avevamo un’idea del Platz che poi non si è rivelata del tutto precisa e abbiamo iniziato direttamente a girare mentre esploravamo il luogo, con un approccio molto spontaneo in cui il disegno del film si componeva giorno dopo giorno: la struttura de I ricordi del fiume rispecchia quindi questo approccio, da un lato, e la struttura stessa della baraccopoli, dall’altro. (Gianluca e Massimiliano De Serio in Pannella)
Come già detto i De Serio sono estranei alla realtà del Platz (e noi come loro), la scoprono facendocela scoprire: l’immagine d’apertura dà effettivamente la sensazione di varcare una soglia sconosciuta, come se da stranieri entrassimo in una terra selvaggia. Con onestà lo sguardo dei registi rifiuta qualsiasi punto di vista onnisciente e di conseguenza angolazioni univoche e definitive (del resto, si sa, nelle immagini, quando queste non barano, è inscritta una metodica. Non si tratta della valutazione di elementi stilistici esteriori, quanto del rilievo di uno stile che ha la forma di un problema). Non abbiamo mai una visione totalizzante del campo, perché la macchina da presa si immerge fino ad affondarvi. Ci troviamo smarriti in uno spazio labirintico («io seguirò questo migrare / seguirò / questa corrente di ali» recitano i versi conclusivi di Khorakhané) dove dietro ogni porta si spalanca un’improvvisa insorgenza (un chiesa dove vengono officiate messe cantate; un bar con tanto di area-biliardo), una nuova storia che ridisegna la traiettoria.
Il bambino, che all’inizio si era lasciato seguire permettendo quindi l’ingresso al campo, ritorna nel finale. La dinamica è la stessa: lui davanti a dettare il passo e la m.d.p. subito dietro. Ora però le ruspe hanno fatto il loro dovere e al posto del Platz resta soltanto un paesaggio detritico, una landa di macerie. Ai De Serio, che sono rimasti, il compito di raccontare:
fare questo film, per noi (come del resto fare qualunque documentario), voleva dire trattenere i ricordi, dare un’opportunità in più alla vita di essere ricordata. Voleva dire presentare un luogo vittima di pregiudizi come è nella realtà, o almeno più vicino alla sua realtà, rispetto all’immagine stereotipata dei giornali, dei politici in continua propaganda. Questo luogo simbolico e cruciale delle nostre periferie, ora destinato a dissolversi nel nulla, di volta in volta è stato il capro espiratorio delle nostre mancanze, o carne pronta per il macello delle campagne elettorali, per inutili e dannosi interventi “di emergenza”. Il cinema può andare oltre questa immagine comune, viziata dai vari opportunismi. (De Serio – De Serio, p. 6)
Questo intervento è già stato pubblicato su «Cineforum», 555
Sitografia
De Serio G. – De Serio M., I ricordi del fiume, pressbook
Panella C., Vision du réel: I ricordi del fiume, «Filmidee.it»
Filmografia
Cavalo Dinheiro (Pedro Costa 2014)
I ricordi del fiume (Gianluca De Serio – Massimiliano De Serio 2015)
Sette opere di misericordia (Gianluca De Serio – Massimiliano De Serio 2011)