Nicola Curzio

altChe il 3D al cinema sia inutile o superfluo è opinione piuttosto diffusa e nemmeno troppo taciuta. “Il 3D non cambia niente” si sente spesso dire a proposito dei film girati in rilievo. Del resto, opere di questo tipo sono di frequente distribuite e proiettate in 2D senza che nessuno, o quasi, si accorga che ne esiste una versione tridimensionale. Nella migliore delle ipotesi il 3D è percepito come un extra, un additivo, qualcosa che può arricchire la proiezione, ma che non incide realmente su di essa. In altre parole, il discorso filmico con il 3D non cambia, anzi, a volte rischia di essere indebolito: l’autorevole studiosa americana Kristin Thompson, ad esempio, ha sostenuto che «gli effetti rocamboleschi della maggior parte dei titoli in 3D sono fastidiosi e hanno l’esito di ridurre il potenziale immersivo. De facto, interrompono il flusso narrativo, chiedendoci di prestare attenzione a un escamotage del tutto ridondante. L’unica cosa che ricordo di La leggenda di Beowulf, uno dei primi film in 3D, sono le lance scagliate dagli indigeni all’indirizzo degli spettatori. Dopo il terzo lancio, la routine diventa noiosa, anzi, fastidiosa. È come ascoltare la stessa barzelletta ad nauseam» (Thompson 2010, p. 86).

In definitiva, pur tenendo conto del fatto che i costi legati alla proiezione di un film stereoscopico sono molto alti e che dunque le sale cinematografiche attrezzate adeguatamente per la corretta riproduzione di queste pellicole sono ancora poche, mi sembra comunque possibile affermare che intorno al cinema tridimensionale permanga ancora oggi una coltre di scetticismo o indifferenza: per gran parte degli spettatori, in certi casi anche “addetti ai lavori”, guardare un film in 3D o 2D è più o meno la stessa cosa. La storia non cambia. Eppure, ridurre il 3D ad un mero effetto speciale, eventualmente sacrificabile, in alcuni casi significa fraintendere e tradire la natura di un’opera che invece è stata pensata e realizzata secondo dei criteri ben precisi.

altNel corso del tempo il cinema stereoscopico ha conosciuto diversi periodi di fioritura, di volta in volta supportato da nuove tecnologie che ne hanno permesso il perfezionamento e la diffusione. Nell’ultimo decennio registi del calibro di Robert Zemeckis, James Cameron, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Tsui Hark, Werner Herzog, Wim Wenders si sono confrontati con il 3D, ognuno saggiandone le possibilità ed esplorandone le latitudini. A prescindere dall’uso che ne è stato fatto, i film stereoscopici diretti da questi autori hanno reso sempre più evidente un dato fondamentale, sebbene tutt’oggi molto trascurato o discusso: l’irriducibilità del 3D. Il vertice di questa ricerca, probabilmente, è stato raggiunto da Jean-Luc Godard con Adieu au langage (2014), lungometraggio preceduto dal corto Les Trois Désastres, parte del film collettivo 3X3D (2013). In Godard il 3D non è mai al servizio della visione, o meglio dell’illusione che quest’ultima può generare, al contrario, è utilizzato con estrema lucidità contro di essa: invece di garantire un maggior grado di realismo1, il 3D qui disorienta, confonde, frantuma e moltiplica le traiettorie, i personaggi, i punti di vista, le storie. Cinema in potenza, potenzialmente infinito, che pare autoalimentarsi, innescato da un cortocircuito, da un microtrauma che ne sbalestra l’intero apparato, ne fa saltare gli schemi, l’ideale grammatica interna: «Due immagini, una sopra l’altra, perché è così che funziona la stereoscopia. Due immagini che si separano, che sono una contro l’altra, in un 3D che non le fonde in una sola, immergendo lo spettatore in un sogno, in un sonno ideologico, ma sceglie al contrario il risveglio irritando lo sguardo, cercando esasperatamente la separazione, il sovrapporsi strabico degli occhi, preferendo la confusione alla fusione» (Sangiorgio 2014, p. 24). Con Adieu au langage si raggiunge dunque il grado zero del cinema stereoscopico. Godard decostruisce il luogo comune che vorrebbe il 3D come macchina spettacolare e lavora sulla profondità dell’immagine. La terza dimensione diviene parte integrante e imprescindibile del suo discorso2.

altTali premesse sono utili per affrontare la questione del 3D in un altro film girato di recente con questa tecnica: Love di Gaspar Noé. Presentato fuori concorso alla 68a edizione del “Festival di Cannes”, l’ultimo lungometraggio del cineasta franco-argentino ha subito destato grande scandalo e curiosità per via del suo contenuto molto esplicito, diventando un caso mediatico prima ancora di entrare nel circuito distributivo3. Non si è dovuto attendere troppo, dunque, perché le prime copie pirata del film iniziassero a diffondersi online ed è stato probabilmente allora che la popolarità di Love ha raggiunto il suo picco. D’altra parte il passaggio in sala, nei paesi in cui c’è stato4, è durato poco ed ha subito severe limitazioni, in primo luogo quella dettata dal divieto imposto ai minori di 18 anni. Se si aggiunge poi che il film è stato distribuito anche (e soprattutto) in versione 2D, si potrà facilmente comprendere come le persone che sono riuscite a vederlo nella sua veste originale, con gli occhiali 3D, sono decisamente la minoranza.

«Malgrado il suo piccolo budget, questo film colorato dal formato cinemascope è stato girato in rilievo grazie a nuove videocamere. Spero che questa scelta renderà l’esperienza più immersiva per gli spettatori. Affascinato dalle immagini in rilievo, continuo da anni a scattare foto in 3D, analogiche o digitali. La posta in gioco è ancora più inquietante quando si filma una persona cara la cui vita sta svanendo. Rivedendo le immagini, si ha la sensazione di aver trattenuto una parte quasi vivente della persona dentro una piccola scatola. Il rilievo dà l’impressione illogica e infantile di aver afferrato un momento del passato molto meglio di quanto possa farlo un’immagine piatta. Siccome questo film racconta un amore perduto, ho pensato che il rilievo potesse aumentare l’identificazione dello spettatore col personaggio e la sua condizione nostalgica. Analogamente, la presenza di una voce over o la scelta delle musiche sono lì per riflettere meglio lo scacco emotivo del protagonista, tanto smarrito nei suoi atti quanto nei suoi pensieri»5 (Noé 2015).

Alessandro Cappabianca, in un illuminante articolo sul cinema stereoscopico e Hugo Cabret, ha individuato due fondamentali conseguenze delle riprese in 3D: «da un lato, la plasticizzazione dello spazio, degli oggetti e dei corpi attoriali – dall’altro, il coinvolgimento dei corpi spettatoriali, con una sorta di rottura della barriera che separa il loro spazio da quello schermico» (Cappabianca 2012, p. 12).

altTali effetti non solo trovano ampio riscontro nelle intenzioni di Gaspar Noé, ma costituiscono anche la materia stessa di Love. Si prenda il primo dei due: la plasticizzazione dello spazio, degli oggetti e dei corpi attoriali è alla base di quell’«impressione illogica e infantile di aver afferrato un momento del passato» di cui parla il regista. Come precisa Cappabianca nel suo testo, «qui non è in gioco un maggior realismo, ma una dismisura plastica, mirante a restituire volume, materia e profondità a corpi che sempre più li stanno perdendo» (ivi, p. 13). Questo effetto-plasticizzazione alimenta cioè un’illusione di presenza volta a compensare una perdita: come Murphy, il giovane protagonista del film, nel ricordo rivive e insegue il suo amore ormai perduto, così chi guarda il film è portato a credere ancora nel cinema e nei suoi fantasmi. Detto altrimenti, attraverso il 3D si può ottenere di nuovo qualcosa che assomigli a quella sensazione di meraviglia e sgomento che provava il pubblico al tempo dei Lumière: invece di essere investiti da un treno, però, nel film di Noé si è travolti da un potente flutto di sperma che invade lo spazio spettatoriale.

In un mondo ormai bidimensionale, saturo di schermi e immagini piatte, la tridimensionalità può essere quindi l’espediente per tentare di recuperare qualcosa che sta gradualmente svanendo: la fede nel cinema. È in questi termini che mi sembra possibile parlare di immedesimazione tra protagonista e spettatore: entrambi sognano ad occhi aperti. Il ricordo/desiderio di Murphy che dà forma, rilievo, all’intero film non deve infatti ingannare: ciò che si vede sullo schermo è qualcosa di puramente soggettivo, onirico, immaginario – lo dimostrano la fotografia, le musiche, la messa in scena, la voce narrante – che peraltro trova un ideale completamento nello sguardo di chi osserva. Il coinvolgimento dei corpi spettatoriali, come anticipato, è d’altra parte la seconda conseguenza delle riprese in 3D. Non si tratta tanto di rendere «l’esperienza più immersiva» per il pubblico, quanto di ridurre o azzerare il divario che normalmente c’è tra soggetto osservante e oggetto osservato. A tal proposito vale la pena riproporre un passaggio di Jonathan Crary, già utilizzato da Rinaldo Censi nel suo saggio su Adieu au langage, pubblicato proprio sulle pagine di questa rivista: «Lo stereoscopio come mezzo di rappresentazione è intrinsecamente osceno, nel senso più letterale del termine. Esso frantuma la relazione scenica fra l’osservatore e l’oggetto, una relazione che è connaturata alla struttura essenzialmente teatrale della camera oscura. Il funzionamento stesso dello stereoscopio dipende, come già accennato, dalla priorità visiva dell’oggetto più vicino all’osservatore e dall’assenza di ogni mediazione fra l’occhio e l’immagine. […] Non è quindi affatto una coincidenza che nel corso del XIX secolo lo stereoscopio diventi progressivamente sinonimo di immagini erotiche o pornografiche» (Crary 2013, p. 132). In questo senso Love, al pari di Adieu au langage, può essere definito a pieno titolo un film osceno.

altVi è, infine, almeno una terza ragione che sancisce l’irriducibilità del 3D nel film di Gaspar Noé. Essa attiene, ancor più specificatamente rispetto alle precedenti, alla profondità dell’immagine. Si prenda la prima sequenza della pellicola: Murphy ed Electra sono distesi su di un letto e si masturbano a vicenda. La mdp è immobile e li riprende da vicino. I loro corpi intrecciati formano una specie di X: la loro disposizione sul piano obliquo del materasso asseconda la tridimensionalità dell’immagine, il suo volume. La costruzione geometrica dello spazio scenico e dei suoi elementi interni è volta a favorire la percezione della profondità. Questo diventa ancora più evidente nel prosieguo del film, soprattutto quando i personaggi in scena sono tre: la composizione che ritorna con più insistenza, infatti, prevede due figure poste in primo piano (di solito Murphy ed Electra) ed una terza più lontana, collocata nel mezzo, che serve da punto di fuga. In questa maniera si ottiene un triangolo prospettico che delinea ed esalta la profondità di campo, rendendo chiaramente percepibile una distanza.

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Tale struttura è ben distinguibile anche nella versione 2D del film, ma senza la stereoscopia tutto si appiattisce, il quadro risulta più artificioso e molto meno armonico: il corpo dell’immagine si riduce ad uno scheletro privo di sostanza. Non solo. La distanza di cui si parla è in primo luogo quella che intercorre tra le due immagini alla base del processo stereoscopico – per intenderci, le stesse che Godard si è divertito a scollare e confondere nel suo film. Al cinema o in fotografia, infatti, l’illusione della tridimensionalità si ottiene riproducendo meccanicamente la visione binoculare, grazie alla quale l’uomo riesce ad elaborare la profondità e quindi a percepire la realtà a tre dimensioni: due obiettivi allineati sullo stesso asse, ma posti ad una distanza di circa 6-7 centimetri l’uno dall’altro (la stessa che intercorre tra due occhi umani), catturano due immagini di uno medesimo soggetto. Tali immagini, in apparenza identiche, in realtà divergono leggermente ed è grazie a questo sottile divario che poi, proiettandole sovrapposte, si ottiene la profondità, l’effetto 3D. Questo meccanismo viene in parte mostrato proprio in Love, nella sequenza in cui Murphy guarda alcune foto di Electra scattate con la sua fotocamera stereoscopica e subito dopo queste compaiono sullo schermo sotto forma di diversi dittici. Lo scarto presente in ogni coppia di immagini è minimo, ma esiste. Noé costruisce il suo film proprio a partire da questo divario, in piena coerenza con la materia narrata: Love è la storia di una separazione, o meglio, di un’utopica riunificazione.

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Se si esclude la prima scena che sembra appartenere a un universo prettamente onirico, il resto della pellicola è quasi interamente costituito da “blocchi di memoria” attraverso i quali torna in vita l’ormai defunta relazione di Murphy ed Electra. Come nel precedente Irréversible, però, l’ordine cronologico degli eventi è invertito: dalla fine si retrocede verso l’inizio. Love segue cioè una logica che Alessandro Baratti ha giustamente definito «regressiva, amniotica e lustrale» (Baratti 2015). In altre parole, «Love è una macchina per risalire il tempo. Come sempre, Gaspar Noé cerca l’origine, questo tempo originario in cui niente è stato ancora alterato, nel quale tutto è puro, semplice, infantile. Solo il ritorno all’indietro e su di sé permette di raggiungere – sapendolo definitivamente perduto – questo stato precedente alla corruzione»6(Martin 2015). Non deve dunque stupire che quella distanza percepita per tutto il film nel finale si riduca fino a scomparire. Attraverso una dolce carrellata ottica all’indietro, il 3D lentamente svanisce mentre il quadro si contrae: un’immagine perfettamente piatta, bidimensionale, occupa ora la superficie levigata dello schermo e mostra Murphy ed Electra abbracciati nella vasca da bagno. I due protagonisti formano un solo corpo indivisibile: l’unità è idealmente raggiunta in un fotogramma che però si tinge di rosso. La morte è il prezzo da pagare per tentare di fermare il tempo, prima che questo riprenda il suo irreversibile corso e finisca per distruggere tutto.

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Note

1 Non bisogna dimenticare che il primo film stereoscopico a colori della storia, Bwana Devil di Arch Oboler, fu girato con un innovativo sistema stereoscopico chiamato “Natural Vision”. Una visione naturale, più realistica e credibile, era ciò che veniva promesso agli spettatori di quel tempo, i primi anni Cinquanta, comunemente considerati “l’età d’oro del cinema 3D”.

2 Nel corto Les Trois Désastres Godard filma il funzionamento stesso del 3D, mettendo le due cineprese davanti ad uno specchio. Un’immagine che parla da sola.

3 Alessandro Baratti, sulle pagine de «Gli Spietati», ha ricostruito con attenzione l’Affaire Love.

4 La lista dei paesi in cui è stato distribuito Love è consultabile su imdb.com. In Italia il film è ancora inedito.

5 La traduzione in italiano dal testo originale è di Alessandro Baratti.

6 Vedi nota precedente.


Bibliografia

Cappabianca A. (2012): Sul 3D, su Méliès e su Hugo Cabret, in «Filmcritica», 621/622, gennaio/febbraio.

Crary J. (2013): Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino.

Sangiorgio G. (2014): Adieu au langage – Addio al linguaggio, in «FilmTv», 46.

Thompson K. (2010): E se il 3D fosse già finito?, in «Duellanti», 55, gennaio.


Sitografia

Baratti A. (2015): Love, in «Gli Spietati».

Censi R. (2014): Adieu au langage, in «Uzak».

Martin M. (2015): L’amour physique et sans issue de Love, in «Le Temps».

Noé G. (2015): Love – pressbook.


Filmografia

3X3D (Jean-Luc Godard – Peter Greenaway – Edgar Pêra 2014)

Adieu au langage – Addio al linguaggio (Adieu au langage) (Jean-Luc Godard 2014)

Bwana Devil (Arch Oboler 1952)

Hugo Cabret (Hugo) (Martin Scorsese 2011)

Irréversible (Gaspar Noé 2002)

La leggenda di Beowulf (Beowulf) (Robert Zemeckis 2007)

Love (Gaspar Noé 2015)