Alessandro Cappabianca
«Avrò dunque sognato!»
(Rigoletto, atto II)
«E che cosa pensa della morte?» domandava l’intervistatore imbecille al regista ne La ricotta di Pasolini. Strano interrogativo, che arrivava all’improvviso, in mezzo a un profluvio di domande banali – e qui è il regista che si trova impreparato, rispondendo a sua volta con una banalità, sia pure filosofica: «Come marxista, è un fatto che non prendo in considerazione».
Il fatto è che la morte prende in considerazione noi, non tanto per il fatto che sappiamo di dover morire, prima o poi, quanto perché i morti non dimenticano, né si lasciano dimenticare, e incessantemente tornano – i tristi, i poveri morti –, a convocarli basta, come già sapeva Pascoli, una tovaglia bianca lasciata sulla tavola la sera, dopo cena. Essi arrivano, allora, siedono silenziosi, mentre tutti dormono, ricordano, «cercano fatti lontani/col capo tra le due mani», tornano nei sogni, appaiono nella penombra, quella penombra che Sandro Bernardi ha individuato come dimensione tipica del mondo bellocchiano1.
I pugni in tasca irruppe nel cinema italiano come un oggetto atipico, in fondo alieno, spiazzante, non tanto per l’attacco ai valori della famiglia, quanto perché questo attacco era condotto all’interno di una situazione “patologica” (il che faceva scandalo anche a sinistra). Era come se il neorealismo fosse finalmente diventato “cattivo”, andando oltre quel generico familiarismo che Buñuel, già dai tempi di Los Olvidados, gli rimproverava.
Finalmente vedevamo uccidere una madre (per di più cieca), nonché un fratello minorato – vedevamo bruciare la bandiera italiana – vedevamo una sorella tutt’altro che remissiva e una famiglia senza padre, preda del caos degli istinti – e se alla fine il ribelle (Alessandro/Lou Castel) moriva per un attacco epilettico particolarmente violento, non era certo come punizione dei suoi peccati.
I pugni in tasca, dunque, ribadiva la necessità di distruggere i presunti valori della famiglia (e della religione), se non si vuole essere a propria volta distrutti – ma la famiglia non si lascia distruggere. Si può partire, andarsene, stare per due anni a Londra (fu lo stesso tentativo di Lorenza Mazzetti), ma la famiglia lavora dentro, i ricordi affiorano, tornano nei sogni o nelle allucinazioni. È per questo che i sogni sono pericolosi, perché fanno presto a tramutarsi in incubi, e ancora più presto a mutarsi in lancinante nostalgia. Tornare, allora, anche solo con la memoria, significa ritrovare vecchi fantasmi, o avere l’impressione di essere noi stessi diventati fantasmi, Ombre in un teatro d’Ombre.
Sogno (ma forse no)
Si è giustamente notato che spesso i personaggi di Bellocchio si presentano come sagome indistinte immerse nell’oscurità, si svelano poco a poco, venendo alla luce, e poi tornano nell’ombra. L’uscita alla luce, tuttavia, non ne attenua il carattere onirico. Non solo ciò che accade al personaggio è sospeso a un confine incerto tra sogno e veglia, ma il personaggio stesso acquista caratteristiche spettrali. Così il principe di Homburg sogna ed è sonnambulo, o più esattamente vegliambulo, automa spirituale nel senso di Deleuze2. Così Giovanni (in Gli occhi, la bocca) può essere il fantasma (finto) del gemello suicida (come tale appare alla madre), e insieme il fantasma (vero) dell’Alessandro de I pugni in tasca. Così Ida Dalser, in Vincere, sogna (ma forse no) di fuggire dal manicomio, sotto un diluvio d’acqua scrosciante. Così il Conte, in Sangue del mio sangue, percorre di notte, quasi invisibile, le strade del paese, a conferma della sua fama di Vampiro. E ci si chiede se sogni, e cosa sogni, la bella addormentata, nel film omonimo, o se il suo vegetare sulla soglia d’una pre-morte non si caratterizzi proprio per l’assenza di sogni.
Sogno della farfalla. La Stanza dei Sogni, affrescata dal Bertoja nel Palazzo Farnese a Caprarola, che nel La condanna diventa un vero e proprio Palazzo dei Sogni, contenente opere che non sono lì: il gruppo di Apollo e Dafne del Bernini (che in realtà è al Museo Borghese), la leonardesca Madonna Litta (dell’Ermitage). Ho scritto altrove (cfr. Cappabianca 2011) sulla natura del desiderio che lega Apollo a Dafne che gli sta sfuggendo (tramutandosi in albero), ipotizzando che in verità si tratti, per tutti e due, del compimento d’un desiderio di metamorfosi.
È lo stesso tipo di desiderio che non solo collega la studentessa all’architetto, ma anche la contadina (sognata?) al Pubblico Ministero che decreta la condanna dell’architetto. Può trattarsi di stregoneria, di patto col diavolo, di violenza, oppure di semplice fascinazione, di forza intrinseca del Desiderio, di potere del Corpo. Certo è che la collaborazione con Massimo Fagioli, trascinando decisamente Bellocchio in direzione del sogno, non ha fatto che accompagnarlo laddove era già diretto, senza che il regista venisse mai meno alla suggestione delle cose, al realismo dei sogni (si potrebbe dire) – di quei sogni che non diventano mai, comunque, semplici materiali per l’illustrazione d’una teoria.
Musica di cose svanite
Nel cinema di Bellocchio, con sempre maggior decisione, si insinua il sospetto che anche l’io, come soggetto, possa essere effetto d’una evocazione di fantasmi, magari indotto dalla fantasia di altri. Allora il riconoscersi come soggetti sarebbe il reciproco darsi atto dei fantasmi circa l’esistenza di altri fantasmi, una festa degli Spiriti, ma Spiriti incarnati: una sorta di Sabba spettrale, in cui però gli Spiriti si trascinano sempre dietro una traccia che li rende riconoscibili.
Una traccia materiale? Sì, ritenendo che tali siano anche le modalità d’uno sguardo, una piega delle labbra, il rumore di certi passi, perfino un soffio, un respiro... Zvanì...
Vecchie canzoni malinconiche, popolari brani d’Opere, magari sentiti cantare in famiglia, da piccoli. Già da I pugni in tasca, la madre di Ale intonava un’aria del Rigoletto, e il fatale attacco d’epilessia dello stesso Ale era accompagnato (o provocato) dalla musica della Traviata. In Sangue del mio sangue, il Conte/vampiro svegliandosi la mattina, accenna al motivo d’una canzone della Grande Guerra (Ta-Pum), facendosi accompagnare in controcanto dalla servitù; poi, aggirandosi per le strade di Bobbio, quasi si commuove sentendo un gruppo di ragazze che cantano ’O surdato ’nnammurato e un coro maschile che sta provando Sul ponte di Perati. Nel Rigoletto a Mantova, pur nell’ambito di un’impostazione produttiva tecnologicamente complessa, da kolossal televisivo, ciò che colpisce, a parte il fascino dell’ambientazione, non è solo la presenza d’un tenore (Placido Domingo) nella parte di Rigoletto (scritta per baritono), ma anche la sua caratterizzazione, che trascura tutto il versante “buffone di Corte”, per concentrarsi, data la fisicità dell’interprete, sul tormento d’un Padre, d’un genitore quasi “abusivo”, d’un uomo che vive oscuramente come una colpa il fatto d’essere stato amato, almeno una volta, nonostante la sua deformità.
Senza parlare qui di Addio del passato, di Gianni Schicchi e di mille altre suggestioni disseminate un po’ in tutti i suoi film, che funzione rivestono, nel cinema di Bellocchio, queste vecchie canzoni, queste arie popolari, queste musiche familiari? Per dirla alla Deleuze, esse rendono presenti falde di tempo, con lancinante immediatezza: perfino l’Enrico IV pirandelliano, nella versione di Bellocchio, ascolta volentieri, in qualità di imperatore, vecchi tanghi suonati da musicisti girovaghi, e la sua pazzia, vera o simulata, comincia a manifestarsi, prima della famosa cavalcata in costume, nel corso d’una colazione all’aperto, durante la quale tutti cantano in coro Sul ponte di Bassano.
Formidabili attivatrici di falde di tempo, queste canzoni, capaci di rendere di nuovo presente, quasi magicamente, un passato di cui non si ha magari neppure nostalgia, che però ci assale quasi proditoriamente, sorprendendoci indifesi. Le falde di tempo, allora, mescolandosi al cosiddetto presente, generano faglie, spaccature, scosse, voragini temporali, in cui in ogni momento il senso rischia di precipitare.
Il film e il suo doppio
Nel corso della carriera di Bellocchio, risultano numerosi i film “doppi”, ossia quelli in cui a una storia “al presente” se ne incolla una “al passato”, che può essere recente o molto remoto. Come autore, a differenza di altri, Bellocchio non ha mai rinunciato a farsi raccontatore di storie, anche se le racconta nel modo più sconnesso possibile; ma le sue storie, anche le più moderne, sono sempre, o quasi sempre, affette dall’Ombra di una storia più antica – oppure sono storie antiche, cui si collegano, magari senza ragioni immediatamente evidenti, altre appartenenti ai giorni nostri.
Per questo era quasi inevitabile l’incontro con l’Enrico IV pirandelliano, in cui la follia si sviluppa secondo le modalità dell’anacronismo o del salto temporale, e la mascherata carnevalesca allude alla natura artificiale d’ogni messa in scena.
La messa in scena, d’altronde, ha sempre bisogno d’uno spazio cui ispirarsi. Spesso, in Bellocchio, è legata alle suggestioni offerte da manufatti architettonici particolari, antichi o pseudo-antichi. Può essere, come nell’Enrico IV, quel miscuglio eclettico di stili disparati costituito dalla Rocchetta Mattei, nei pressi di Porretta Terme. Solo che nella Rocchetta Mattei gli stili si accostano, radunati con indifferente eclettismo ottocentesco, mentre nel film di Bellocchio si evidenzia l’impressionante, pericoloso potere di trasfigurazione insito in ogni messa in scena. Il pazzo, finto o vero che sia, non si limita a credersi o a fingere di credersi Enrico IV, ma ne approfitta per regredire all’infanzia, a un tempo che è altro dall’oggi, come dalle vicende dell’Imperatore di Germania. Allora si diverte a veder fluttuare in aria uccelli di carta sospesi a fili, a montare un cavallo a dondolo, a tirare palle di neve in faccia al povero guitto che accetta, ogni anno, di recitare la parte di Gregorio VII, nello scenario d’una finta Canossa. L’unica realtà, qui, è l’eterna bellezza di Matilde, che si trasmette di madre in figlia, ed è ancora fonte di tormento. Per lei, per la bellezza che era, per la bellezza che è, Enrico IV è ancora capace di impazzire veramente, e di uccidere – solo che la spada che trafigge Belcredi è anch’essa finta, una spada da teatro, con la lama retrattile.
Gli odi, gli affetti, le affinità e le idiosincrasie familiari, non passano, non hanno mai fine, neppure se per anni ce ne siamo andati da casa, abbiamo fatto altre cose, conosciuto persone diverse – neppure se siamo invecchiati: allora, anzi, assumono il carattere d’un ritorno di fantasmi.
In Sangue del mio sangue torna il fantasma del fratello suicida per amore, che già tornava in Gli occhi, la bocca – torna l’immagine della Strega, che già inquietava, Maddalena non pentita, La visione del sabba. A questo punto la cronologia, la data d’uscita dei film, perdono importanza: non si distinguono più i fili, nel groviglio del tempo. Gli occhi, la bocca è la storia del ritorno a casa di Giovanni, in occasione del suicidio del suo gemello Pippo, e dunque è la storia di una tragedia familiare (di Marco) e al tempo stesso dell’attore Lou Castel, dagli anni de I pugni in tasca. Giovanni (nome che ricorda il pascoliano Zvanì) riappare alla madre, verso la fine, truccato e ridipinto come Pippo nella bara (della tragedia, si riconosce solo il foro rosso della pallottola in fronte). Non sa più chi è, Giovanni, non sa se la sua realtà non sia ormai quella d’un fantasma – ma non lo sa neppure Castel che, in quanto attore, si trova a passare davanti ai manifesti d’un cinema in cui viene proiettato I pugni in tasca. Decide di andarlo a rivedere, e ci trova Vanda, la donna per la quale il fratello s’è ucciso, e di cui si sta innamorando a sua volta. I due si baciano, nel buio della sala, mentre sullo schermo passa la sequenza dell’uccisione della madre da parte di Alessandro.
È il Capodanno del 1982. Bambini incantati davanti alla TV, a vedere Domenico Modugno che, euforico come il venditore leopardiano di almanacchi, presenta il nuovo anno. Giovanni urla, sbraita, scuote il cadavere del fratello nella bara. Scoppiano i fuochi artificiali prima di assumere il ruolo di veri e propri roghi ne La visione del sabba, dove Maddalena, giovane pazza moderna, anticipa Benedetta, strega sottoposta alle torture dell’Inquisizione.
Il Sabba è un montaggio frenetico di primissimi piani e silhouettes, su sfondi d’acqua e di fuoco. Le streghe inseguono Davide, il giovane medico, nel sogno – ma chi sogna? Davide respira tranquillamente sott’acqua, come Maddalena, come Benedetta. Poi Maddalena è condotta al rogo, eretto sui gradini d’una chiesa (di Tuscania?), ed è Davide stesso ad appiccare il fuoco: ma è un fuoco che non brucia. Il rogo si spegne, e la Strega ne esce trionfante; il suo corpo intatto incombe dall’alto su Davide annichilito, e il Sabba ricomincia.
Anche Buongiorno, notte, dopo il prologo della visita che i brigatisti fanno all’appartamento destinato a diventare la prigione di Moro, comincia con i fuochi. Sono quelli di Capodanno del 1978, anno terribile, il cui ingresso, peraltro, va festeggiato come di consueto. Il passeggero leopardiano, che si diverte amaramente a confondere il povero venditore di almanacchi, in fondo sa bene che quelli per ogni nuovo anno non sono davvero festeggiamenti, ma esorcismi mascherati – mascherati e inutili. Così il Capodanno del 1978 si riallaccia a quello del 1982: fuochi che preannunciano lamenti funebri. Eppure, come c’è un doppio (Giovanni) che prende il posto del suicida (Pippo), così Herlitzka, nei panni di Aldo Moro, esce dalla sua prigione e se ne va libero, a passeggio nel fresco mattino d’una città che si sta appena svegliando.
Ovviamente è solo un sogno di Clara, la brigatista immaginaria che non incontra mai Moro nella prigione, che non parla con lui, ma commette l’errore di osservarlo ogni tanto dallo spioncino. Da lì, vede il primo piano d’un volto, una specie di tragico medaglione che, senza guardarla, le restituisce lo sguardo, come a futura memoria. Non è neppure uno sguardo di rimprovero, ma è capace di suscitare ricordi familiari, antichi affetti, antiche canzoni, antichi cori – sembra che anche Clara abbia avuto parenti a Bobbio, che anche lei abbia ascoltato Fischia il vento, intonata (a un matrimonio!) dalla corale degli ex-partigiani, ormai invecchiati. Anche lei allora diventa parte, come Aldo Moro, della famiglia del regista, sogna i suoi stessi sogni, vive i suoi stessi incubi.
Incontri col diavolo. In Nel nome del padre, durante la recita messa in scena dagli studenti ribelli, il dottor Faust vende l’anima al Diavolo (nascosto sotto l’aspetto d’un grosso cane nero), ben sapendo che l’anima non esiste. A esistere è dunque solo il Diavolo, non l’anima (e tanto meno Dio)? E il Diavolo sarebbe tanto sciocco da comprare qualcosa di inesistente?
Lo scambio in realtà è alla pari. In cambio dell’anima, cioè di niente, il Diavolo non dà niente: al massimo, asseconda lo scorrere della vita del contraente verso il suo naturale esito, che è l’incontro finale col Nulla. E poi non è esatto dire che Dio non esiste: esiste, come cantava Jago, un Dio Crudele, fatto a nostra immagine e somiglianza. Esiste cioè il Diavolo – in lui, sì, abbiamo ragione di credere, anche se Faust era piuttosto ingenuo a credere alle sue promesse.
Incontri con i Vampiri. Il conte Bulla de L’ora di religione, il principe di Palagonia de Il regista di matrimoni, il conte/vampiro di Sangue del mio sangue. Personaggi misteriosi e un po’ ridicoli. Detengono, o credono di detenere, un certo potere, da esercitare nell’ombra – ma questo potere, alla fine, si sbriciola tra le loro mani, è reale, in parte, in parte inconsistente. Il conte Bulla sogna restaurazioni monarchiche e sfida a duello Picciafuoco (Castellitto), ma poi interrompe la sfida con disprezzo, non appena si rende conto dell’inconsistenza schermistica dell’avversario. Il principe di Palagonia, oberato dai debiti, racchiuso nella Villa dei Misteri, è costretto a dare sua figlia in sposa al rampollo di una famiglia di nuovi ricchi, malgrado la disperata opposizione (in sogno?) di Franco Elica (sempre Castellitto). Il conte/vampiro, in una delle sue rare uscite notturne per le vie di Bobbio, udendo antiche canzoni, è assalito dalla nostalgia d’un tempo in cui forse era vivo – riesce a sventare la truffa del sedicente Ispettore del Ministero, ma rischia di essere riconosciuto dalla moglie, e subito dopo muore – non perché sia sorpreso, come Dracula, dalla luce del giorno, ma perché la memoria, in fondo, può diventare un peso insostenibile.
Sorelle Mai ne era già la prova. Benché ottenuto dall’accostamento di ben sei spezzoni filmati a Bobbio in circostanze ed epoche diverse (dal 1999 al 2010) si tratta d’un film compatto e coerente. Pier Giorgio, Elena, Alberto, le zie, Gianni Schicchi, si amalgamano perfettamente con le attrici professioniste (Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher): potremmo dire che tutti siedono alla stessa tavola, dopo cena, attorno alla stessa tovaglia bianca (per tornare a una suggestione pascoliana), e molte cose si riconnettono, ancora, a momenti de I Pugni in tasca – come se l’asprezza, la rabbia di quel film, dovessero ormai stemperarsi in una sorta di riconciliazione. Pier Giorgio ed Elena crescono. Le zie invecchiano e progettano l’ampliamento della cappella di famiglia al cimitero. Il cinema, macchina del tempo, capace di rimescolare i tempi, scavalca gli anni, li percorre e torna indietro, accompagna la vita in controcampo, con commento musicale (Il Trovatore, L’uomo in frac...), mentre Gianni Schicchi scompare sott’acqua in quella piscina naturale tra le rocce, dove Bellocchio ama filmare i suoi parenti mentre fanno il bagno, e solo il suo cilindro (di Gianni Schicchi) resta a galleggiare nella notte, in superficie.
Una sorta di riconciliazione, abbiamo detto, che però non significa ammorbidimento o rassegnazione. Il fatto è che il Tempo assembla inevitabilmente ombre sui muri, fa tornare i morti, convoca fantasmi – più semplicemente, impedisce di dire davvero addio al passato – al passato che non vuole saperne di passare. È difficile, per non dire impossibile, sottrarsi alla seduzione dei morti, al loro fascino muto. Forse, tra loro e i vivi, c’è una comunità, un’intesa segreta, che il cinema di Bellocchio si è dato come missione di esplorare.
Note
1 Cfr. Sandro Bernardi 1998. Sugli echi pascoliani nel cinema di Bellocchio, vedi il capitolo dedicato al “Diavolo in corpo” (p. 126 e seguenti). ↑
2 Ne L’immagine-tempo, come del resto ne L’immagine-movimento, G. Deleuze non nomina mai Bellocchio. Ciò non toglie che al regista piacentino si attaglino perfettamente molte delle considerazioni svolte al cap. 7 (“Il pensiero e il cinema”), capitolo decisivo de L’immagine-tempo, sul trattamento filmico del sogno. ↑
Bibliografia
Bernardi S. (1998): Marco Bellocchio, Il Castoro Cinema, Milano.
Cappabianca A. (2011): Trame del fantastico. Riflessi e sogni nel cinema, Pellegrini, Cosenza.
Filmografia
Addio del passato (Marco Bellocchio 2002)
Bella addormentata (Marco Bellocchio 2012)
Buongiorno, notte (Marco Bellocchio 2003)
Enrico IV (Marco Bellocchio 1984)
Gli occhi, la bocca (Marco Bellocchio 1982)
I figli della violenza (Los olvidados) (Luis Buñuel 1950)
I pugni in tasca (Marco Bellocchio 1965)
Il regista di matrimoni (Marco Bellocchio 2006)
Il sogno della farfalla (Marco Bellocchio 1994)
L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (Marco Bellocchio 2002)
La condanna (Marco Bellocchio 1991)
La visione del sabba (Marco Bellocchio 1988)
Nel nome del padre (Marco Bellocchio 1971)
Rigoletto a Mantova (Pierre Cavassilas 2010)
La ricotta (episodio di Ro.Go.Pa.G.) (Pier Paolo Pasolini 1963)
Sangue del mio sangue (Marco Bellocchio 2015)
Sorelle Mai (Marco Bellocchio 2010)
Vincere (Marco Bellocchio 2009)