Luigi Abiusi

Pensando al meglio del cinema in questo 2015 (cosa utile, per non perdere tasselli essenziali di visibilio, di pragmatica) mi vengono in mente (anche) cose che tecnicamente non sono cinematografiche, ma che lo sono dialetticamente, come parte di quel reale spesso ingombro proprio di cinema e dei dibattiti intorno ai film, agli autori, addirittura il mercato; mentre faccio mia la credenza per cui le immagini perdono di senso se non sono urgenti, necessarie, e che esse lo sono solo se investono l'esperienza, il deambulare misero, minimo dei soggetti (che guardano), e li impregnano così con i loro odori al nitrato; i colori accesi da un simulacro di sole rosso all'orizzonte, i suoni distorti o raggricciati di un qualche dispositivo di registrazione, eppure così veritieri, brulicanti più della realtà stessa, nella loro ingenua, impudica falsità.


L'accumulo di visioni è cosa di mercato (anche di nicchia, collezionismo di Blu-Ray, DVD, di DVX, ecc.) se è tutto chiuso in se stesso (nell'orbita del suo tessuto tecnico, specificamente filmico) e non invade il vedente e lo mette in una condizione angelicata, pronto ad accogliere l'altro (quindi a fare politica: che si sa che non potrebbe esserci pace fuori dalla dimensione meta-cinematografica) proprio in virtù non tanto della visione folgorante, quanto dell'allineamento concreto al reale, un risvolto di realtà ora vibrante e magnetica, che quella visione ha provocato, dentro quel fuoco del cielo rosso, sanguinante, che era già del primo Malick (l'ultimo sembra esca anche in Italia), ma non meno del Gombrowicz riscoperto da Zulawski (mentre resta irreperibile Witkiewicz); di Cortazar (le sue lettere politiche, cioè poetiche, pubblicate quest'anno in Italia), tutt'uno con il “sangue nel suo cieco circuito”; un tramonto ingiustificato da cui salvarsi nell'ultimo Minervini (e in tutto il continuum del suo cinema), fino al costante, annichilente crepuscolo che è The Knick, ormai anche al di là del grande romanzo americano, e arrivando a suoni, riverberi di nube, cadente su erbe: alla “pastorale americana” dei Godspeed You Black Emperor e ai tramonti freddati dai Flying Soucer Attack. E Bellocchio, la resa del conte Basta e di Federico di fronte alla bellezza; i neon di Weerasethakul aperti su altri territori, gli stessi; gli spazi persi nella nebbia elettrica di Under The Electric Clouds di German jr.; quelli impastati di sterco e sperma di Boi Neon di Gabriel Mascaro in un Brasile svagato, profumato; e Antonia di Cito Filomarino, bruciante, contorta in corpo come bestia da stilo, come salamandra, lasciando sottese le parole, e così via.

Ma che brucino i nomi, i generi, i supporti, gli accumuli di cinema fine a se stesso (la cinefilia, cioè necrofilia), rinfuocandosi di tramonto dalla ferita sanguinante del mondo (ancora quello in bassa risoluzione di Godard, ammesso che sia vero il sibilo rossastro che adesso guardo siderare dalla finestra), fino a essere cenere sparsa sul suolo dell'immaginario, dei sensi; che li fertilizzi, li fomenti ancora, per la moltitudine di bagliori a venire, facendosi cinema, cioè realtà germinante, come ogni volta.