Pietro Masciullo

altOrigine

Un fascio di luce, un’immagine proiettata, un uomo discende un dirupo. E poi terra dalla quale riemerge un antico supporto, pellicola, immagine che sta per configurare una memoria. Altra proiezione si sovrappone, vertigine, indicando un “film in progress”: Balikbayan #1 di Kidlat Tahimik.


Basterebbe questa manciata di inquadrature per riflettere consapevolmente su una delle esperienze cinematografiche più dense e complesse degli ultimi anni, impossibile da confinare in uno scritto, impensabile da analizzare esaustivamente nella sua eterea levità. Ecco allora, riflettiamo solo su questi singoli frame iniziali: arriva prima l’immagine e poi il suo medium; arriva prima l’image e poi la sua picture; arriva prima il cinema e poi il suo ricordo. Tahimik ha già configurato pienamente il sublime paradosso del suo filmare: è l’immagine-della-memoria che balena prima dei suoi supporti, è l’identità comune, il Mito, che oltrepassa la contingenza della Storia e delle dittature per liberarsi in ogni epoca e in ogni “film”. Archeologia dell’immagine, certo, dove la discontinuità della ricerca è già stratificata sulla pelle del cinema e sui supporti che man mano si susseguono sotto i nostri occhi (16 mm, poi VHS, poi digitale, e ritorno) solcando i limiti del tempo e (di)segnando ogni scarto, ogni ferita, ogni cicatrice della Storia e delle singole storie per restituirci un’esperienza spettatoriale tutta presente. Qui e ora.

Tahimik sovrappone la secolare ricerca di libertà del popolo filippino (dal colonialismo alle dittature) al Mito di Enrique di Malacca. Schiavo di Ferdinando Magellano comprato per caso da mercanti cinesi; poi imbarcato nelle celeberrime esplorazioni di inizio XVI secolo; poi primo uomo a circumnavigare il globo, primo immigrato a metter piede in Europa, primo filippino a tornare nel suo villaggio da uomo-libero. Il “nostro” film, però, non è questo: il nostro film inizia dopo la circumnavigazione, dopo la morte di Magellano per mano di Lapu-Lapu, quando lo schiavo Enrique è già tornato a casa e la sua esperienza è già memoria-condivisa da intagliare nel legno (un supporto…) per farsi “forma” (origine da tramandare…) eternandosi in un’immagine declinata sempre al presente.

Fermiamoci un momento. Cosa stiamo vedendo, ora, noi spettatori del 2015? Fotogrammi sopravvissuti di un vecchio film mai terminato (16mm girati più di trent’anni fa) che riconosciamo come intrisi di tempo perché storicizzati dal loro supporto, quindi stiamo percependo una memoria ancor prima di accorgerci che è il giovane Kidlat Tahimik a interpretare Enrique. Circumnavigazione del mondo (del cinema) per far riemergere un “privato” passato come traccia nel presente: ancora una volta è la superficie delle immagini a rivelarci la verità, arriva prima la percezione di una memoria e solo dopo il suo corpo. E allora, ci siamo: Tahimik è Enrique perché rivendica in ogni frame la sua libertà di cineasta non-occidentale impossibilitato a chiudere la sua opera o “rinchiudere” il fantasma di un Mito perennemente vivo nel presente delle Filippine in lotta.

Libertà

alt«The end to the endless voyage», si dice spesso, Balikbayan è la fine di un viaggio senza fine. Tahimik intaglia nel legno-del-cinema il suo personale viaggio, le sue passioni e i suoi incontri: Godard, Herzog, Coppola. In un film-inchiesta che è sempre dentro e fuori se stesso (in dinamica godardiana), sempre in contemplazione di una verità estatica nell’atto del guardare (in dinamica herzoghiana), sempre in fertile dialettica tra immagini che si sovrappongono in apocalissi-e-rinascite (in modalità coppoliana).

Il cinema di Tahimik – esattamente come quello del suo discepolo più diretto Raya Martin – non intende mai mettere-in-scena una memoria condivisa, bensì farla balenare come esperienza in divenire negli occhi di uno spettatore che sta vivendo. Balikbayan diventa così il sempre-presente di un sentimento, diventa forma (in)visibile in ogni altra forma-compiuta: letteratura, fotografia, TV, scultura, poesia, persino il karaoke per bambini! È così che il 16 mm dei primi anni Ottanta sfuma nel digitale odierno (“materia prima” del giovane cinema filippino che lo riconosce come Maestro indiscusso) portandosi dietro continui cambi di formato e segnando la trasmigrazione del corpo di Tahimik ormai anziano. Una voce fuori campo (un membro della troupe, certo, ma di quale film esattamente?) ci dice: «Non è nel frame!». Poi scorgiamo il vecchio Tahimik, nel 2015, che entra nell’inquadratura e la stessa voce ci dice: «Ecco, ora è nel frame!».

(In)volontariamente queste parole casuali, questo linguaggio da set (ma il linguaggio è la chiave dell’impero, ricordiamocelo), nascondono tutta la ricerca estetica di Kidlat Tahimik. Il suo costante (non) essere nel frame. Il suo fiducioso attraversare l’immagine della Storia configurando infiniti adieu au langage come i primi vagiti del cinema. Il vecchio Tahimik inciampa e viene soccorso da un fotografo straniero (che in quel momento sta dipingendo…); il volto del vecchio e l’ombra di quel gesto sopravvivranno in ogni “immagine” sviluppata dal fotografo. Da qui inizia un doppio viaggio: quello di Enrique di Malacca nel film incompiuto (dalla Vicenza di Pigafetta alla Spagna di Carlo V) e quello odierno alla ricerca del misterioso vecchio che ritorna come traccia fantasmatica. Il doppio capovolge le identità, in un gioco straordinariamente sovversivo come la camera oscura inventata nella stiva della nave di Magellano: il giovane fotografo (guarda caso interpretato dal vero figlio di Tahimik…) dice ora di chiamarsi Enrique; il misterioso vecchio, finalmente in carne e ossa, si presenta invece come Ferdinando...

The End…?
Nell’ultima parte del film – nella director’s cut come giocosamente viene ribattezzata – si assiste al disvelamento più vertiginoso: il dispositivo si rivela in tutta la sua dignitosa povertà, mostrando gli scarti del viaggio-senza-fine di un regista che ha circumnavigato il globo (dal Giappone all’Australia, dall’Europa al West degli Usa visti dal punto di vista degli “indiani” nativi) per ritornare oggi nelle Filippine a (ri)mettere in scena la morte di Magellano tra le braccia di Enrique. Ecco: è quell’immagine sopravvissuta del giovane Tahimik che solca l’ennesimo dirupo a dare corpo al sogno delle Filippine libere. È il cinema che vince sul tempo solcando i confini dei suoi supporti e delle censure prodotte dalla Storia. Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III, allora, Kidlat Tahimik rinuncia definitivamente a fare un film su Enrique perché ha reso Enrique tutto il (suo) cinema.


Filmografia

Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III (Kidlat Tahimik 2015)