altDue film di produzione statunitense (Boyhood e American Sniper) continuano a testimoniare la resistenza del realismo al cinema che una volta era chiamato di “consumo”.
Il primo, del regista Richard Linklater, è uno spaccato di american life girato in dodici anni sempre con gli stessi attori, e potrebbe apparire un racconto di formazione che segue la vicenda, dalla preadolescenza alla postadolescenza, di un giovane protagonista. Lui (Mason Evans) cresce in una famiglia della classe media, dall’era di Bush a quella di Obama, in Texas, che la sua tipicità la deriva da una madre (Olivia) che passa la trafila di tre matrimoni e di relativi nuclei familiari volta a volta allargati (inizialmente Mason ha solo una sorella, Samantha, più grande di lui di qualche anno), dalle vicissitudini della carriera di lei che tra non poche difficoltà approda all’insegnamento universitario e soprattutto dalle esperienze scolastiche e quelle della crescita in ambienti via via anch’essi diversificati, ma, tutto sommato, consueti, mai abbandonato – anche di fronte a violente discrepanze educative – da un carattere molto sensibile e alquanto introverso.


Ma è proprio la “normalità” che, nel momento del delicato passaggio dal liceo al college (esperienza decisiva comune a milioni di suoi coetanei), non lo convince. La sua passione per la fotografia può indicargli anche una strada poco canonica, e però è proprio come percorrerla che non sembra poter essere accettato seguendo gli stereotipi dominanti della “responsabilità” e dell’“impegno” per lo studio e il lavoro. Anche “normali” sono le sue esperienze sessuali, specie quella che in particolare pare coinvolgerlo sentimentalmente con Sheena, la quale, tuttavia, proprio nel suggerirgli, ossimoricamente il conformismo della spregiudicatezza gli rende palesi le difficoltà di una reale maturazione secondo convincimenti profondi, controcorrente ancorché confusi. Il termometro della temperatura di una vita complicata gli è, del resto, fornito dallo stesso discreto successo della madre, che sente dal suo canto di aver attraversato quasi senza accorgersene ormai la parte più importante della sua esistenza: i suoi figli ora sono al college, i mariti cancellati con le case che l’avevano ospitata, lei è finalmente libera e autosufficiente, libera ed emancipata, e magari reclama per sé, sull’orlo di una crisi di pianto, almeno una foto del passato – scattata da Mason –, che, ai suoi occhi, con troppa facilità il ragazzo si sta lasciando alle spalle.

Però, questo racconto, che ha seguito passo passo la vita dei protagonisti e quella parallele degli attori, gli eventi e i luoghi delle loro performance, rivela, alla fine, nel primo giorno del college, che non è il montaggio che riproduce (con la specifica trovata di Linklater) il tempo e gli accadimenti, ma è, viceversa, il tempo interiore dell’autore (e del protagonista) che ha avviluppa e confeziona il racconto. Non è vero che la vita – come sostiene una nuova amica del giovane – consiste nel cogliere l’attimo, ma è l’attimo che contiene la vita: il cinema allora non riproduce il tempo, ed è il tempo invece che detta i modi dell’esperienza artistica, anche quella della minuta ricostruzione di una tipica e complessa biografia adolescenziale. E la bellezza di Boyhood è intensamente rappresentata, contro ogni aspettativa cronologica orizzontale, proprio da questo verticale intrigo formale, che mantiene comunque i caratteri di una sineddoche del tutto realistica sull’America d’oggi. Accanto agli ottimi Ellar Coltrane (Mason), Patricia Arquette (la mamma), Ethan Hawke (il padre, Mason Sr), tutti gli attori stanno al posto giusto.

altDa parte sua, l’altro film (American Sniper) di Clint Eastwood, si pone in qualche modo sulla stessa lunghezza d’onda del cinema americano che fa riferimento alle guerre del Medio Oriente, tra Redacted (2007) di B. De Palma e Nella valle di Elah (2007) di P. Haggis e i film The Hurt Locker (2008) e Zero Dark Thirty (2012) di K. Bigelow. Nei conflitti sollevati dal terrore Eastwood ritaglia la storia di un leggendario soldato americano (Chris Kyle), interpretato con talento da Bradley Cooper, il cecchino che ha collezionato nel suo carnet 160 bersagli umani centrati (uomini, donne, bambini).

I temi che articolano questa unica più che rara esperienza di guerra sono in gran parte consueti, salvo le schiette motivazioni chiamate in causa dall’amor di patria di un giovane cowboy texano: quelle della guerra difensiva contro i disprezzati “selvaggi”, che gli derivano dal rozzo insegnamento del padre cacciatore (lui stesso, del resto, già uccideva da bambino cervi inermi nelle campagne non lontane da casa), e che partiva dalla suddivisione dell’umanità in un gran numero di pecore, le quali, assalite da lupi famelici, erano destinate ad essere difese solo da potenti cani da pastore. Non importa che la moglie esclami una volta che il male è d’ovunque, Chris Kyle nutre nel cuore, senza condizioni, la passione del dovere della violenza contro il male. E, per lui, il suo compagno di squadra Mark, caduto nel corso di un agguato, era già morto qualche giorno prima perché in una lettera a casa, stanco della guerra, aveva rinunciato a questo principio. Del resto quello stesso cuore sembra rivelarsi senza incertezze gonfio della gloria «che taluni cercano, e che tal volta è essa medesima a incontrare anche quelli che non la cercano» (come declama una madre sul fresco sepolcro del figlio nel cimitero militare).

Eastwood è, come sempre, rigoroso e conseguente, e la pietà che sfiora qualche rara volta l’occhio del cecchino o l’impeto dell’irruzione coi marines nelle case di donne e bimbi spaventati sono parte viva dell’umanità autentica e del profilo esistenziale del suo protagonista. Perciò, quando tutto sembra annebbiarsi (anche l’attaccamento alla famiglia e ai figli) per l’ossessione del giustiziere, prima che “la leggenda” trovi per caso la morte per mano di un altro reduce vittima della psicosi post bellica, per l’autore di Million Dollar Baby e di Gran Torino, una volta, usando le parole di un commento evangelico di un prete cattolico, egli crede che i nostri occhi in fin dei conti non sono capaci di penetrare il nulla e che, forse, «soltanto dopo la morte saremo capaci di vedere con la luce dello sguardo di Dio».

L’America di Eastwood, in altre parole, ha la calibrata ambiguità (l’oscurità) della ferocia quotidianamente introiettata, e la narrazione di una storia vera – spoglia e spietata – ha per lui la durezza e la naturalità e la follia del nostro tempo fatto, insieme, di retorica e di necessaria crudeltà. Nelle scene di guerra poi il regista torna sulla stessa linea formale delle opere di De Palma, di Haggis, di Kate Bigelow, ma non si tratta mai di imitazione, in assoluto: è questo il senso del suo capolavoro.


Filmografia

American Sniper (Clint Eastwood 2014)

Boyhood (Richard Linklater 2014)

Gran Torino (Clint Eastwood 2008)

Million Dollar Baby (Clint Eastwood 2004)

Nella valle di Elah (In the Valley of Elah) (Paul Haggis 2007)

Redacted (Brian De Palma 2007)

The Hurt Locker (Kathryn Bigelow 2008)

Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow 2012)