magnifico_tumblr_lgc2q23bqw1qedo44o1_500La rivoluzione che, nel giro di qualche decennio, ha interessato il mondo della cosiddetta “comunicazione di massa” ha dato vita ad un nuovo modo di concepire tutto ciò che ci circonda, attribuendo un nuovo valore alle immagini e a tutti quei mezzi attraverso cui vengono propagandate. Basta dare un’occhiata ai recenti fatti di cronaca per rendersi conto che, ormai, è il mezzo a determinare l’evento, la cui riuscita è direttamente proporzionale allo spazio che gli viene dedicato.


L’11 settembre 2001 è forse l’esempio più lampante di quanto quel «sublime televisivo», profetizzato da Nicholas Mirzoeff (2002, p. 158), sia diventato il leitmotiv di una società all’interno della quale «le immagini sono più vive delle persone» (Barthes 1980, p. 118). Questo perché il bombardamento mediatico cui ogni giorno siamo sottoposti ci ha insegnato che l’importanza di una cosa, di una persona o di qualsiasi altra manifestazione della realtà è direttamente proporzionale al suo passaggio su uno schermo, che sia grande, piccolo o virtuale.

Le nostre abitazioni sono ormai dotate di infinite finestre sul mondo, grazie alle quali ci viene offerta la possibilità di assistere a eventi che in realtà potrebbero essere testimoniati solo da pochissime persone. Aiutato dai nuovi mezzi di comunicazione, ogni avvenimento è in grado di diventare alla portata di tutti e allo stesso tempo tutti sono in grado di creare il proprio evento personale. Un nuovo modo di concepire la comunicazione di massa che ha causato un radicale cambiamento anche della concezione di spettatore, che è diventato una creatura ibrida, in grado di riflettere al suo interno tutte le trasformazioni di questa rivoluzione.

Da questo punto di vista il mondo della settima arte è riuscito ad essere più che profetico, anticipando i tempi e analizzando tematiche oggi più che mai attuali. Pellicole come Videodrome di David Cronenberg (1983), Natural Born Killers di Oliver Stone (1994) e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980) hanno messo in evidenza quanto ormai la nostra realtà sia strettamente collegata ad una dimensione massmediale che, se pur involontariamente, è riuscita ad influire sul modo di percepire tutto ciò che ci circonda. Questo perché il cinema è sempre riuscito ad offrirci il suo spaccato di contemporaneità, dimostrandosi un vero e proprio specchio in grado di riflettere gli usi e i costumi di una determinata società.

Ovviamente non sono stati solo i film citati gli unici ad affrontare l’argomento. Prendiamo, ad esempio, il caso di Strange Days di Kathryn Bigelow (1995), pellicola caratterizzata da una trama che sarebbe riduttivo definire attuale: la storia, ambientata in un futuro distopico, è quella di Lenny Nero, un ex poliziotto diventato spacciatore di una droga molto particolare. Si tratta, infatti, di esperienze altrui, che grazie ad una singolare tecnologia possono essere (ri)vissute pienamente. Una sorta di estremo reality show in prima persona, trasmesso all’interno delle nostre teste. Un’esperienza sensoriale totale che permette di soddisfare anche il voyeurismo più estremo.

Fantascienza? Indubbiamente. Ma basta dare un’occhiata veloce a gran parte dei palinsesti televisivi odierni per rendersi conto che molto spesso la realtà si avvicina ai più incredibili racconti fantascientifici.  L’elenco potrebbe continuare all’infinito, con una serie di titoli che hanno cercato, nel loro piccolo, di riflettere queste tematiche: Peeping Tom di Michael Powell (1960), The Truman Show di Peter Weir (1998), solo per citarne qualche altro. Perfino un lungometraggio apparentemente innocuo come L’implacabile di Paul Michael Glaser (1987) sotto la sua corazza da action movie – resa ancora più rozza dall’interpretazione di Arnold Schwarzenegger – nasconde un’acuta riflessione sulla cosiddetta “teoria ipodermica”, conosciuta anche come «teoria del proiettile magico», secondo la quale «il potere dei media non sembra avere ostacoli nel conseguimento dell’obiettivo di voler imporre la volontà di chi li governa agli individui della massa» (Bentivegna 2006, p. 11).

Sembra però che ultimamente anche il cinema, che tanto ha stigmatizzato questi cambiamenti, abbia subito il fascino di questa nuova onda, che ne ha modificato la struttura, dando vita ad un nuovo genere che, pur non avendo ancora un nome ben preciso (found-footage, mockumentary, falso documentario) e non surclassando la cosiddetta vecchia scuola, è stato in grado di imporsi all’attenzione mondiale, ritagliandosi un proprio spazio.
Titoli come Il cameraman e l’assassino di Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde (1992), The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez (1999), [●REC] di Jaume Balagueró e Paco Plaza (2007) o Diary of the Dead di George A. Romero (2007), non sono altro che lo specchio di una società all’interno della quale chiunque, nessuno escluso, può autonomamente promuovere la propria immagine.

Si tratta di una vera e propria trasformazione, che è riuscita in maniera determinante a modificare il modo e la concezione di “fare cinema”:

«Una volta la televisione era colonizzata dallo stile di visione del cinema; da qualche anno, invece, il rapporto sembra essersi invertito: è il cinema a costituire l’eccezione, mentre la televisione si pone come lo standard di riferimento a partire dal quale devono definirsi tutti gli altri potenziali concorrenti, e questo per il semplice motivo che – quantitativamente – il piccolo schermo rappresenta ormai nella vita di ognuno di noi il veicolo principale degli audiovisivi» (Pedullà 2008, pp. 146-47).

Riprendendo le parole di Gianni Canova, si può dire che questo cinema vive «della contraddizione fra il culto del falso e la ricerca del vero, fra la riproduzione tecnica del reale e l’illusione dell’immaginario» (Canova 2000, p. 38), diventando specchio di una realtà che vive dei suoi stessi contrasti.
La cosa è più che mai paradossale: il progresso che ha investito la settima arte nel giro di un centinaio d’anni l’ha, infatti, spinta a mascherare se stessa, come se stesse cercando a tutti i costi di dimostrare agli spettatori di essere tornata alle origini, ai tempi in cui i fratelli Lumière stupivano gli spettatori del loro cinematografo proponendo «la vita colta sul fatto […] un cinema della realtà» (Bertetto 2002, p. 11).

La settima arte sembra ormai interessata a mascherare le sue storie, ridimensionando lo straordinario e facendolo diventare un semplice prodotto di consumo. Il risultato di questo processo è dato da una serie di film che, pur essendo prodotti di finzione, cercano a tutti i costi di sembrare veri e, cosa ancora più importante, di riprodurre quell’ambiente massmediale all’interno del quale lo spettatore moderno si sente totalmente a suo agio:

«Non c’è più distanza, fra chi guarda e ciò che viene guardato. […] Non c’è più distanza […] nelle pratiche scopiche dello spettatore contemporaneo: quella distanza (fra i personaggi, fra i personaggi e la macchina da presa e noi) su cui il cinema ha fondato i propri modi di rappresentazione e le proprie strategie di erotizzazione dell’immagine filmica e sostituita ora al toccare ottico del cinema contemporaneo: che è avvolgente, immersivo, inglobante» (Canova 2000, pp. 149-51).

Anche il cinema dunque è interessato a riproporre l’attrazione del reality show in prima persona, cercando di avvicinarsi al pubblico, che, avvolto dal buio di una sala cinematografica, si trova ad assistere ad uno spettacolo che lui stesso avrebbe potuto immortale con il semplice uso di un telefonino.
I cambiamenti che una tale rivoluzione ha apportato al mondo della settima arte sono tantissimi e indubbiamente importanti, non solo dal punto di vista semiologico, ma anche tecnico. Si tratta di piccole rivoluzioni altrettanto significative, perché coinvolgono alcune regole considerate “secolari” all’interno del mondo del cinema, come il montaggio, determinato dalla semplice interruzione delle riprese, causata dalle più svariate motivazioni, o la stessa regia, che in alcuni casi ha perso gran parte della sua importanza.

Un film che senza ombra di dubbio ha portato avanti questa riflessione è Vedozero (2010), nato da un’idea di Andrea Caccia, regista di documentari creativi e insegnante di linguaggio cinematografico. Un’opera radicale, realizzata da 70 ragazzi con altrettanti telefoni cellulari, in grado di stravolgere alcuni capisaldi del mondo della settima arte, racchiudendo l’essenza di una società basata sul culto di un’immagine mediata da un qualsiasi supporto tecnologico.
Vedozero non è altro che l’estrema rappresentazione della nostra contemporaneità, ma, dato che ogni riflessione risulta chiara solo a distanza di una determinata frazione di tempo, ce ne accorgeremo del tutto solo tra qualche anno.


Bibliografia

Barthes R. (1980): La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino.

Bentivegna S. (2006): Teorie delle comunicazioni di massa, Laterza, Roma.

Bertetto P. (a cura di) (2002): Introduzione alla storia del cinema, Utet, Torino.

Canova G. (2000): L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano.

Mirzoeff N. (2002): Introduzione alla cultura visuale, a cura di A. Camaiti Hostert, Meltemi Editore, Roma.

Pedullà G. (2008): In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti, Bompiani, Milano.


Filmografia

[●REC] (Jaume Balagueró – Paco Plaza 2007).

Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato 1980).

Diary of the Dead (George A. Romero 2007).

Il cameraman e l’assassino (Rémy Belvaux – André Bonzel – Benoît Poelvoorde 1992).

L’implacabile (Paul Michael Glaser 1987).

Natural Born Killers (Oliver Stone 1994).

Peeping Tom (Michael Powell 1960).

Strange Days (Kathryn Bigelow 1995).

The Blair Witch Project (Daniel Myrick – Eduardo Sanchez 1999).

The Truman Show (Peter Weir 1998).

Vedozero (Andrea Caccia 2010).


Filippo Magnifico, cresciuto a suon di film Horror e musica Rock, è laureato in Scienze della Comunicazione. Collabora con siti e riviste cinematografiche online, sempre convinto che la forma di cinema più pura sia il genere Horror.