Al cinema d’archivio, Antonio Bigini, 35 anni, ci è arrivato un po’ per caso, grazie alla casa di produzione Kiné in sodalizio con Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia. È venuta allora la scrittura del soggetto di Anita (2012), diretto da Luca Magi e ispirato al trattamento inedito di Viaggio con Anita, film mancato di Fellini, pensato e scritto con Tullio Pinelli e l’apporto di Pasolini nel 1957, portato poi sullo schermo da Monicelli vent’anni dopo (qualcosa però di molto diverso rispetto all’idea iniziale, si lamentava Fellini). Per Bigini sono arrivati poi Formato Ridotto (2012), regia condivisa con Claudio Giapponesi e Paolo Simoni (su testi di Cavazzoni, Enrico Brizzi, Emidio Clementi, Ugo Cornia e Wu Ming), e la scrittura di Vacanze al Mare (2013) al fianco di Ermanno Cavazzoni che lo ha diretto.
L’ultimo approdo – lo abbiamo visto alla “Festa di Cinema del reale” di Specchia – s’intitola Ella Maillart – Double Journey, un film-documento che sapientemente compone filmati 16mm, fotografie, pagine di diario e lettere che la scrittrice e fotografa ginevrina Ella Maillart produsse nel corso di un viaggio avventuroso in Oriente tra il 1939 e il 1940, in compagnia della sodale Annemarie Schwarzenbach, scrittrice e fotografa anche lei. Viaggio che la Maillart poi continuerà da sola, da Kabul fino in India. Bigini ha condiviso la regia con la svizzera Mariann Lewinsky, storica del cinema e programmatrice di festival.
Come è avvenuto l’incontro con Mariann e con questa storia?
Tutto è cominciato da una mia residenza d’artista, nel 2012, in Svizzera. Lì ho avuto modo di incontrare Mariann, che è una delle principali figure del “Cinema Ritrovato” di Bologna, una delle “anime”, direi, di quel festival. È nata un’amicizia e ci siamo poi incontrati nuovamente a Bologna, appunto, abbiamo parlato dei materiali d’archivio sulla Maillart, Mariann ci stava lavorando da 15 anni e nel frattempo era anche riuscita a restaurarli. Il passo successivo sarebbe stato un’edizione in DVD di quei materiali, ma la situazione era un po’ sospesa, incerta: è da quel momento che è iniziato davvero il mio coinvolgimento e all’amicizia si è affiancata la collaborazione professionale. Mariann non era una regista, non aveva mai fatto un film, si è sviluppato in seguito quello che considero una sorta di esperimento, una sintesi inedita tra due polarità, tra la sua sensibilità rigorosa, filologica e il mio approccio più narrativo. Credo che questi due mondi siano penetrati bene nel film.
Già, è un aspetto interessante delle regie in coppia. Forse c’è sempre qualcosa a cui bisogna rinunciare in qualche modo. È successo anche per Ella Maillart? La struttura del film è cambiata nel tempo?
Beh, il lavoro in due ti porta senz’altro a una situazione diversa, qualcosa che va al di là di idiosincrasie individuali ma anche dei gusti individuali. Io, poi, cerco comunque di tenere alla larga il gusto, di prescindere da ciò che spesso è realmente, qualcosa di effimero, che può invecchiare presto. Sì, insomma, è importante per me diffidare del gusto. L’intesa con Mariann è stata fondamentale, abbiamo storie ed esperienze diverse ma anche punti di contatto. Del resto, la figura del programmer di un festival è molto simile a quella di un montatore: è qualcosa che ti porta infatti ad affinare uno sguardo, una consapevolezza, un senso del ritmo. Mariann ha tutto questo. C’è da dire che, in effetti, ciò che è diventato poi Ella Maillart – Double Journey nella sua struttura “unica” era previsto inizialmente come qualcos’altro, due filmati di 20 minuti ciascuno. Abbiamo mostrato il lavoro a Luciano Barisone, il direttore artistico di “Visions du Réel”, ha apprezzato, ne è rimasto colpito e poi ci ha detto: “Perché non ne fate un unico film?”. E così è stato, davvero un work in progress, un corpo a corpo con quei materiali.
E non dev’essere stato facile, immagino, quel corpo a corpo. Di cosa avevano bisogno quelle immagini? Che cosa mancava? Certo, sono un documento storico straordinario, contengono racconti già in sé, una storia, quelle foto, quei filmati, i diari, ma come si costruisce poi quell’anello ulteriore, come dare loro, nuovo senso?
Quelle immagini erano meravigliose, sebbene Ella Maillart non fosse una cineasta, non sapesse girare. C’erano delle difficoltà oggettive. Vediamo Ella e Annemarie in quelle immagini, ma non parlano. Il primo sforzo, allora, è stato quello di ricostruire una localizzazione, una cronologia, e in questo è stato fondamentale il lavoro di Mariann, sono stati preziose le foto, i cosiddetti provini a contatto, per confrontarli poi con i diari, con i filmati: in questo modo siamo riusciti a raggiungere una ricostruzione cronologica, filologica, a dare dei nomi a quei luoghi che per noi erano lontani e che nel frattempo sono anche cambiati. È stato inoltre essenziale il lavoro sui testi: l’obiettivo era quello di privilegiare materiali inediti o comunque meno noti, ecco perché abbiamo preferito lavorare più sui diari di Ella e meno sul suo libro, ad esempio. E la voce narrante della Jacob è stata una scelta legata proprio a questa idea che avevamo, un elemento forte che però riesce a non essere didascalico, credo. Questo film è stata davvero una continua sorpresa nel suo farsi, qualcosa che si è “fatta, facendosi”, non so come spiegarlo meglio. Per me, poi, il personaggio della Maillart è stata una vera sorpresa, affascinante, si è andato sedimentando per gradi. Inizialmente avevo considerato questa storia come qualcosa di lontano da me, una storia tutta al femminile, per quanto eccezionale; ecco, non riuscivo a comprendere bene come avrebbe potuto intercettare pienamente la mia sensibilità. Poi è accaduto.
E anche rispetto ai tuoi lavori precedenti si può considerare una sorta di “prima volta”? Avevano un “peso” diverso, suppongo, le immagini della Maillart, appartenevano a qualcosa che era stato già definito, la biografia di Ella e di Annemarie, la loro storia.
In realtà non si arriva mai pronti a un nuovo film, mai davvero. I film a base d’archivio si pensano davvero solo montandoli. Sono un unico groviglio di ideazione, realizzazione e montaggio. Posso dire però che le immagini del viaggio di Ella e Annemarie avevano effettivamente un “peso” diverso rispetto a quelle che avevo incontrato nei miei lavori precedenti.
Sì, le immagini degli archivi privati sono in un certo senso più “leggere”, più a tua disposizione, più “manipolabili” se così si può dire, non sai chi le ha fatte, non conosci le loro storie; un esempio possono essere le immagini di Vacanze al mare di Ermanno Cavazzoni: sono immagini amatoriali, hanno una dimensione, una vocazione anonima.
Nel caso di Ella Maillart, si trattava di immagini altrettanto amatoriali, certo, ma c’era una soggettività maggiore, evidente, che richiedeva un approccio diverso. Poi avevamo a disposizione una notevole ricchezza di materiali e penso soprattutto alle fotografie, che ritengo la parte più bella di quel film. E lavorare sulle fotografie in un film non è mai facile, da parte nostra, però, non ci siamo preoccupati di obbedire a delle regole fisse, era importante far dialogare quelle immagini col testo, ma allo stesso tempo evitare omogeneizzazioni, era davvero il personaggio della Maillart a legare tutto. Volevamo soprattutto “esporre” i materiali, valorizzarli per quello che erano.
È stato decisivo il lavoro sul suono e sulla musica, anche abbastanza lungo. Mariann spingeva molto per arrivare a una semplificazione del suono, direi anzi a uno svuotamento, qualcosa che invece mi preoccupava, non mi convinceva. Ma aveva ragione lei, e astrarre è stato prezioso, ha permesso di non nascondere la natura di “fonte” dei materiali e anche di evitare un coinvolgimento emotivo totale dello spettatore. Era importante infatti non “catturarlo” pienamente, ma lasciarlo su una soglia di percezione. Abbiamo utilizzato vetri, penne, matite, abbiamo creato il vento con la carta. È stata una sonorizzazione materica.
Perché si lavora sulle immagini d’archivio? Su immagini preesistenti? E non è forse più difficile oggi riconoscere, scoprire, produrre il “senso” delle immagini, anzi, dell’immagine che non ha più contesto, che è social, neutra, che è “visualizzazione”, è YouTube?
Credo ci siano varie ragioni che spingono a confrontarsi con gli archivi: una, che è anche bieca se vogliamo, un po’ piratesca, è legata al sistema economico-produttivo del cinema italiano. Costa poco, sostanzialmente, realizzare questi film, non richiedono grossi investimenti. Un’altra è qualcosa che noi autori forse fatichiamo ad ammettere: in qualche modo lavorare sugli archivi ti permette di non esporti pienamente, non è completamente tua la responsabilità, non sono immagini che hai girato tu. C’è poi una fascinazione innegabile per un passato che abbiamo perduto, per la pellicola – io sono nato nel 1980 – un senso di scoperta, di avventura. Ma più vado avanti e più mi rendo conto di quanto siano “pericolose” quelle immagini; è infatti facile cedere alla loro bellezza, è difficile gestirle. Da qui nascono certe tendenze estetizzanti, anche ingenue, mentre uno come Ermanno Cavazzoni, ad esempio, riesce davvero a considerare quelle immagini per il loro valore lessicale, di contenuto, senza preoccuparsi di renderle “belle”. Non so se sono in grado di rispondere, poi, al resto del tuo quesito. Posso solo dirti che, da autore, con YouTube non saprei lavorare, è un archivio troppo infinito. È necessario poter partire da alcune immagini, è una limitazione fondamentale.
Filmografia
Anita (Luca Magi 2012)
Ella Maillart – Double Journey (Antonio Bigini – Mariann Lewinsky 2015)
Formato Ridotto – Libere riscritture di cinema amatoriale (Antonio Bigini – Claudio Giapponesi – Paolo Simoni 2012)
Vacanze al Mare (Ermanno Cavazzoni 2013)
Viaggio con Anita (Mario Monicelli 1979)