I grandi massacri, l’eliminazione di intere etnie, gli stermini di massa, sempre esistiti, si incontrano nel Novecento da un lato con il vertiginoso potenziamento dei mezzi tecnologici più adatti alla bisogna, dall’altro con la necessità di tener conto dell’esistenza di strumenti di testimonianza (fotografia, cinema ecc.) possibilmente da evitare.
Lo Sterminio è diventato dunque qualcosa come l’ombra, il tarlo, il lato oscuro e nascosto della Civilizzazione. Come tale, da un lato deve essere occultato, effettuato in segreto e, una volta compito, consegnato all’oblio, sottraendolo a ogni tentativo di serbarne memoria o testimonianza - dall’altro, però, può essere enfatizzato, rivendicato come opera meritoria, di sostanziale giustizia, della quale fa parte una dose imprescindibile di spietatezza. I nemici, veri o presunti, sono comunque da intimidire, da rendere inoffensivi anche con la paura.
Nulla è chiaro, nulla va dato per scontato nell’universo della propaganda, ma sembra questa la strategia mediatica dell’Isis, nei cui filmati prevale di gran lunga, per quel che ne sappiamo, l’accentuazione delle capacità militari, ma non mancano gli inviti al proselitismo tramite sequenze accattivanti. Da un lato i bambini/soldato, cui sembrerebbero spesso affidati ruoli di esecutori di sentenze capitali (il Califfato non tiene conto, a quanto pare, del famoso interdetto baziniano a proposito della rappresentazione della morte), dall’altro, bambini/bambini, che si divertono in parchi-gioco appositamente organizzati.
Simbologia dei colori: bandiere nere, divise nere, folte barbe nere, volti mascherati (di alcuni combattenti spesso si vedono solo gli occhi), con effetto volutamente terrorizzante /vs/ prigionieri avviliti, rei confessi, pronti a riconoscere le proprie colpe, in uniformi color arancione. Nelle riprese di esecuzioni effettuate sulla riva del mare, il contrasto cromatico, per quanto elementare, è comunque orchestrato in modo sapiente, attraverso totali che giocano anche sul lento sfilare delle sagome umane sullo sfondo mare/cielo, e l’inserto di opportuni primi piani al culmine drammatico di ogni uccisione. Il tutto (salvo naturalmente l’uccisione in sé) sembra il frutto coreografico, a lungo provato, di numerose prove e ripetizioni, al fine di far raggiungere un’aura di sinistra, ineluttabile sacralità a quello che potrebbe essere il semplice documento di una multipla esecuzione (vedi, a questo proposito, la scena emblematica del rogo del pilota giordano catturato: ogni rogo ha sempre in sé qualcosa di cerimoniale).
Almeno per le parti che i media occidentali ci permettono di vedere, perciò, la violenza delle immagini è in parte assorbita dalla sacralità, dal loro aspirare a porsi come registrazione d’una Cerimonia o d’un Rito – emerge di più semmai, almeno per orecchie laiche, dalle parole, dai proclami, dagli incitamenti alla guerra santa, oppure dall’accanimento con cui ci si applica alla distruzione di reperti archeologici. Il tutto sempre nella più totale assenza dell’elemento femminile, salvo sporadiche apparizioni di bambine, intente, sui banchi di scuola, allo studio del Corano. Sembra che la visibilità mediatica sia preclusa alle donne, perfino a quelle, che pure esistono, eventualmente votate al ruolo di martiri-kamikaze.
Benché si vedano e si odano cose inquietanti, legate a rigurgiti di fanatismo politico-religioso per noi inaccettabili, il livello di questa produzione resta tutto sommato modesto, appiattito sulle evidenti finalità propagandistiche. È la vecchia tecnica para-fascista di intimorire i possibili avversari, millantando la propria invincibilità: il cinema come arma, ma arma di mistificazione, nascondimento della verità.
Nascondere la verità. A questo scopo, nei prodotti dell’Isis, bisogna che i nudi fatti in qualche modo emergano, che si evidenzi la brutalità d’una politica ammantata di fondamentalismo religioso: spirito di Crociata rovesciato. Ma i casi di gran lunga più frequenti, a cominciare dall’insegnamento dei maestri nazisti, sono riferibili invece all’estensione d’una cortina di silenzio e oblio sui più tremendi massacri – vedi per esempio il genocidio di circa un milione di oppositori politici (“comunisti”), perpetrato in Indonesia dagli squadroni della morte al tempo di Suharto, che lo sguardo d’un documentarista come Oppenheimer cerca disperatamente, con rischio personale, di sottrarre alla damnatio memoriae.
Le acque dei fiumi portano via i cadaveri, come la natura ricopre rigogliosa, in successive fioriture, le tracce dei campi di sterminio. In questo senso, il lavoro di Oppenheimer incontra le stesse difficoltà del lavoro di Lanzmann sulla Shoah – ma emergono subito significative differenze. I carnefici nazisti, alla fine perdenti, cercavano in tutti i modi di farsi dimenticare – se scoperti, adducevano sempre la necessità di obbedire agli ordini ecc. I carnefici indonesiani, invece, completamente impuniti, in parte minimizzano il loro ruolo nelle uccisioni, in parte riescono a stento a mascherare la soddisfazione per un lavoro “ben fatto”, tanto da assumere volentieri le vesti di attori in un film (cfr. Act of Killing) che intende ricostruire il clima e gli avvenimenti di quegli anni. Nessun segno di pentimento, in loro, salvo forse in un caso (il vomito improvviso di un anziano ex torturatore, mentre sta mimando i gesti dello strangolamento dei prigionieri).
In The Look of Silence, invece, è ancora più evidente la congiura del silenzio che viene opposta alle domande inopportune di Adi, il cui fratello era stato ucciso in quel periodo. Adi ora fa l’oculista, vende occhiali, ossia, potenziando la vista delle persone, compie funzioni analoghe a quelle della mdp che lo segue come un’ombra (e in parte lo protegge) – ma gli ex carnefici, tra i suoi pazienti, si rifiutano di vedere, fieri delle posizioni di potere politico raggiunte. La memoria resta appesa a fili troppo labili. Legata al vedere (e ri-vedere), facilmente si estingue, specialmente in assenza di supporti visivi (certo, c’è supporto e supporto).
Si tende a dimenticare (vecchia regola) ciò che non è mai passato davanti a un dispositivo di registrazione delle immagini. Questo vale per genocidi e massacri, ma anche in quanto sigillo delle emarginazioni più diverse. Essere emarginati non significa solo essere esclusi dalla comunità sociale (produttiva), ma anche essere dimenticati, essere esclusi, come se non si esistesse, da ogni tipo di visibilità.
L’emarginazione rende invisibili i corpi e i luoghi stessi in cui si vive, a meno che l’occhio d’una cinepresa non accetti di incorrere nello shock dello svelamento.
In Louisiana – The Other Side di Roberto Minervini, è resa di nuovo visibile una comunità di famiglie povere, viventi in condizioni incredibili in luoghi sperduti tra le paludi della Louisiana – famiglie composte quasi per intero di drogati, tra i quali non per questo vengono meno legami di affetto e solidarietà. Lo svelamento riguarda prima di tutto la miseria dei corpi, la flagranza del loro degrado, e la disperata resistenza che i viventi, malgrado tutto, vi oppongono – in primo luogo Mark, dal volto preistorico, antico come gli alberi. Nella seconda parte del film, poi, vediamo una banda para-fascista: uomini farneticanti, armati di fucili mitragliatori, che si addestrano a combattere in previsione dell’attacco d’un nemico immaginario. Solo che il nemico non esiste o (peggio) li ha dimenticati – forse si intravede sullo sfondo, sotto forma di grosse macchine che sfrecciano in lontananza sulle autostrade.
Se il nemico non ti degna di uno sguardo, non c’è lotta, e nemmeno sconfitta – solo frustrazione. Viene in mente il titolo italiano, I dimenticati, una volta tanto emblematico, del film di Preston Sturges, Sullivan’s Travels. Viene in mente l’altra comunità di emarginati, filmata sempre in USA da Gianfranco Rosi in Below Sea Level. Viene in mente anche Flaherty, col suo Louisiana Story, ma per sottolineare le enormi differenze, malgrado la sequenza (quasi un omaggio) di Mark in canoa sulle paludi: qui nessun alligatore è in agguato, e se ne sono andati, ormai, anche i cercatori di petrolio. Non è rimasto, sulla palude, altro che lo scivolare silenzioso della canoa tra gli alberi che spuntano dall’acqua.
Nessuno a guardare, salvo la mdp. Allora, come testimonianza dello sguardo sul vivente, il cinema (documentario o meno) riconsegna alla visibilità, quindi all’esistenza. I drogati, gli emarginati, i disperati, che la società esclude e dimentica, ci sembrano in ogni caso soggetti più significativi (più vicini all’umano) dei vocianti fanatici fondamentalisti, bramosi di visibilità a buon mercato.
Filmografia
Below Sea Level (Gianfranco Rosi 2008)
I dimenticati (Sullivan’s Travels) (Preston Sturges 1941)
I racconti della Louisiana (Louisiana Story) (Robert J. Flaherty 1948)
L’atto di uccidere (The Act of Killing) (Joshua Oppenheimer 2012)
Louisiana – The Other Side (Roberto Minervini 2015)
Shoah (Claude Lanzmann 1985)
The Look of Silence (Joshua Oppenheimer 2014)