In Mad Max: Fury Road non esistono traiettorie sicure, ma si cavalca col volante in mano evadendo da una forma di prigionia degli occhi. C’è il desiderio di soddisfare la sete di vedere ancora dentro luoghi desertici che sono i tanti territori del cinema, distese di nulla che smuovono continuamente la propria superficie granulosa, rompendo gli orli, sfalsando prospettive e coordinate per proiettarci in un viaggio allucinato, cioè nel cinema.

Il mondo che George Miller ci mostra è un mondo che si tiene a malapena, che ha subito la perdita, il seme, la “parte migliore” messa a tacere (e a vedere) dietro l’ingranaggio di un sistema fatto di lamiere, sacche umane e schiavi mentre l’uomo (Max), questo sopravvissuto né morto né vivo, guarda ai suoi fantasmi apparsi ogni volta da una miccia lanciata in aria, come kamikaze disposti a cadere nel vuoto, ad esplodere per diventare luce dentro la materia nera cioè dentro le possibili infinità delle immagini. Tamburi e rimbalzi, chitarre sputafuoco, automobili in corsa, tempeste, fulmini: è un costante (som)movimento di sabbia e corpi, lampi di luce e funambolismi sopra la riga dell’orizzonte; e il desiderio di tornare a casa spinge l’acceleratore ancora una volta in avanti, ritma la traversata, l’accompagna sotto cieli infuocati e notti che paiono abissi: l’effetto speciale dei colori, la pelle stuccata di bianco degli schiavi, il trucco insomma, diventa «moltiplicazione delle forze del reale» (Ghezzi 1995, p. 101) anzi rende possibile un continuo travaso cinema-realtà in questo mascherare i corpi per smascherare la loro effettiva finzione; e il deserto diventa territorio propizio, un non-luogo in cui far riemergere dal sottosuolo l’immaginario granuloso, oltre il limite di velocità, oltre il limite del suono.

È una sorta di decostruzione dell’immagine. «Ognuno di noi a modo suo era a pezzi» ci avverte una voce fuori campo: è il movimento delle immagini che schizzano via a diventare vertigine, a sfiorarci prima di diventare postume, già (ac)cadute dentro questo scenario fantasma dove l’occhio, gli occhi celestiali di Furiosa bucano lo schermo e una visione, fino a diventare alveo entro cui vedere questo scoppio di motori rombanti – cavalli kafkiani – che, nella loro folle corsa contro e dentro lo spazio, cercano di accorciare le distanze (annullandolo, il tempo) per ritrovarsi, poi, ancora in sella, erranti e soggetti alla scomposizione della propria immagine già mutante e mutilata «fremendo sul suolo fremente, sino a lasciare gli speroni, perché non ci sono speroni, sino a gettare le redini, perché non ci sono redini […] senza collo né testa di cavallo…» (Kafka 1998, p. 27). In fondo se dobbiamo trovare una linea di continuità con il passato, di pezzi si parlava anche quando in Interceptor strani apprendisti meccanici sfornavano dalla loro officina alchemica quel mostro a quattro ruote su cui sarebbe salito Max/Gibson: “un pezzo qui un pezzo là” a creare l’insieme. Ma, «nessuna immagine ridà l’insieme» (Kafka 1988, p. 71), così come il miraggio di una terra promessa diventa ormai immagine sepolta, insabbiata dalla folle corsa del tempo e l’unica possibilità di scacco è tornare indietro per ritrovare un inizio che conduce alla fine che riconduce all’inizio di una nuova storia, di una nuova riscrittura di Mad Max, lontana, sicuramente molto più lontana dalla sua vecchia trilogia.


Bibliografia:

Ghezzi E. (1995): Paura e desiderio. Cose (mai) viste, 1974-2001, Bompiani, Milano.

Kafka F. (1988): Diari, Oscar Mondadori, Milano.

Kafka F. (1998): La metamorfosi e altri racconti, Mondadori, Milano.


Filmografia:

Interceptor (Mad Max) (George Miller 1979)

Mad Max: Fury Road (George Miller 2015)