Matteo Marelli

«Quanta violenza può contenere un soffio?
Quanta disperazione un sussurro?»
(Giovanni Lindo Ferretti)

Afferrare il senso di un’opera non vuol dire essere in grado di redigerne chirurgicamente il referto tramico. L’intreccio, lo dice la parola stessa, a volte aggroviglia nei nessi di causalità, togliendo respiro al testo, facendone cosa morta.
 Meglio quindi liberarsene, cestinarlo, proprio come fa Chiara Guidi durante la lettura scenica di Tifone, liberamente tratta dall’omonimo racconto di Joseph Conrad, che per l’occasione viene trasformato in una partitura strumentale per pianoforte e “viola”: il primo, fisicamente presente in scena in tutta la sua eleganza a coda, suonato da Fabrizio Ottaviucci, la seconda, invece, presa a modello dalla regista per modulare la propria voce.

 
Un’operazione che prosegue il percorso di sperimentazione vocale e preverbale intrapreso da Guidi e che richiede, come da lei stessa dichiarato, «un cambio di mentalità procedurale: le parole devono essere riscritte sul pentagramma secondo il modo di essere delle note» (Guidi). Per poter farla finita, artaudianamente, con la dittatura del significato, causata dall’asservimento della lingua alla sola funzione comunicativa. Altrimenti è l’ossificarsi della parola a cui segue la sclerosi del pensiero.
Chiara Guidi sente che è necessario riscoprire le risorse dimenticate del linguaggio come processo di modellazione infinita; restituire alla parola la sua arcaicità, la sua materialità; far vibrare la violenza della voce contro l’oppressione del discorso articolato e organizzato nel fallace inganno dell’incartamento narrativo. Stracciare la trama per tracciare percorsi semantici, fluidi, traiettorie divaganti.

 «Un testo – diceva Ezio Raimondi – è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita» (Raimondi 2007, p. 16), ed è proprio questo che fa la regista ripensando il racconto di Conrad come una drammaturgia sonica, che se ne infischia dell’immediata decifrazione preferendo travolgere l’ascoltatore-spettatore con frangenti di suoni disorientanti che non concedono appiglio alcuno. «La parola e la sua notazione, la scrittura fonetica, cessano di essere dettato, citazione, re-citazione e ordine. Cessano di essere copia: […] la parola si sottrae alla generalità del concetto e alla ripetizione, all’identificazione, alla reiterazione. Al suo appiattimento a segnale» (Ponzio in Mallardi 2008, pp. 48-49). Non esistono più coordinate cartesiane su cui impostare la rotta, perché il territorio verso il quale ci sta spostando è il centro del tifone.
 Chiara, al timone di una ruota di microfoni, fluttua sulle pagine conradiane assecondandone con la lettura il ritmo: dalla brezza leggera al vento fresco, dalla burrasca alla tempesta fin dentro all’occhio dell’uragano; le sue parole rollano e rullano a seconda del moto ondoso del mare. Non è interessata alla narrazione, ciò che piuttosto le preme trasmettere, attraverso l’esaltazione della parte irripetibile dell’enunciazione, è il frangente di sensazioni che mobilita chiamando a raccolta tutte le energie vocali che è in grado di governare.

 È il sentimento di smarrimento, misto di inquietudine e di ebbrezza, di terrore oceanico a livello spinale, che lo spettacolo vuole restituire, a costo di fare a brandelli il testo. Cosa che effettivamente accade, ma che non deve essere interpretata come una provocazione estetica, ma, al contrario, come un’esecuzione etica, intimamente rispettosa del senso profondo dell’opera. Del resto, «non si dà vero dialogo col testo, senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé» (Raimondi 2007, p. 27).
Chiara Guidi ridà fiato al racconto di Conrad con soffio rinnovato. La sua lettura, mai pacifica, attraversa la nostra pelle, tocca il ritmo del nostro esistere, aprendoci gli occhi su prospettive interpretative inedite.

«Quando io adopero una parola, – disse Humpty Dumpty, in tono piuttosto sdegnoso, – significa esattamente quel che ho scelto di fargli significare… né più né meno.»
«La questione è, – disse Alice, – se lei può fare in modo che le parole significhino le cose più disparate.»
«La questione è, – disse Humpty Dumpty, – chi è il padrone… ecco tutto.» (Carroll 2006, p. 187)

Seguendo le suggestioni affiorate dalla visione di Tifone risulta quasi ovvio che il percorso teatrale di Chiara Guidi sbirciasse nello stesso specchio attraversato da Alice; la sua caduta, dopotutto, è la caduta del senso, della parola abitualmente adoperata, di cui è negata una corrispondenza esatta al significato; quest’ultimo non è pre-stabilito, ma, come sostiene Humpty Dumpty, cangiante, deciso da chi ne fa uso.

Fuggendo la semantica e la grammatica si ritorna all’infanzia, all’in-fans, «alla condizione di chi è fuori dal linguaggio» (Castellucci in Castellucci – Guidi – Castellucci 2001, p. 271). E, difatti, la ricerca preverbale intrapresa da Chiara prende anche le forme del teatro infantile, non per bambini, o almeno non soltanto, come lei stessa tiene a precisare. Ne è un esempio La bambina dei fiammiferi, spettacolo, che si avvale sempre del pianoforte di Ottaviucci in veste di dramatis personae, liberamente tratto da La piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen. Una favola difficile da sostenere, come ricorda la regista, per le questioni che affronta, esplicitamente drammatiche; priva di una risposta che ammorbidisca la trama.

Si è evocata la dimensione fantastica e destabilizzante di Alice, che ritorna, soprattutto in apertura di questa rilettura del classico anderseniano, declinata in forma di mirabilia psichedelica. Davanti a un fondale, a righe bianche e nere in verticale, una donna, vestita della stessa geometria e cromia, srotola intraducibili glossolalie. Gli insensati ritornelli, contrappuntati dall’eco del pianto di un asino, aggiunti al sovrapporsi di strisce, dato, oltre che da lampi stroboscopici, dall’andirivieni dell’incomprensibile narratrice lungo la scena, provocano in chi guarda e ascolta un’ipnosi caleidoscopica. Ma del resto la dimensione allucinatoria è propria della fiaba di Andersen (per ogni fiammifero accesso corrisponde una visione) e la regista non fa altro che esaltare questa componente già espressa nel testo.

Chiuso il preambolo la scena è inghiottita dal buio, a poco a poco fatto brillare dalle candele accese dalla bambina dei fiammiferi. Dietro ogni fiamma uno specchio che la riflette, la moltiplica e crea una scena di barlumi allucinanti. Un gioco di riflessi, gli stessi che vanno oltre la trama, alla ricerca di risonanze con altri racconti, come quello di Farīd ad-Dīn ’Attār, della farfalla ubriaca d’amore che per conoscere la fiamma vi si getta contro perdendovisi ed indentificandovisi allo stesso tempo. Da qui lo scambio di battute:

- Cos’è la fiamma?
- Solo una bella domanda

Quello di Chiara Guidi è un teatro che «violenta le forme», va «al di là di queste […] e attraverso la loro distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione»; un teatro che agita «ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare» (Artaud 2000, p. 132). La bambina dei fiammiferi, come la scena della Crudeltà, non accetta l’interpretazione dello psicanalista-commentatore, è uno spettacolo che si rivolge ai sensi attraverso un linguaggio costantemente allusivo, pregno d’immagini, suoni e visioni che rimandano ad un’idea misterica, legato allo sgomento della materia. «Il teatro – aveva scritto Artaud – deve essere considerato il Doppio, non di quella realtà quotidiana e diretta […] ma di un’altra realtà rischiosa […] dove i principi, come i delfini, una volta mostrata la testa si affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque» (cfr. Artaud 2003, pp. 165-69). Uno spettacolo che non teme di confrontarsi con la flagranza, l’impatto dirompente della paura. Come succede alla morte della piccola fiammiferaia: il fondale si spalanca letteralmente su un luminosissimo aldilà, che appare come perturbante quadro domestico. Qui, davanti a un tavolo, a impastare farina bianchissima, una massaia dalla mastodontica testa asinina. Chiara accompagna nell’attraversamento delle paure, «sapendo che […] sono cambiate rispetto a una volta. Oggi l’orco non spaventa più nessuno, fa molta più paura la paglia sotto i piedi» (Guidi in Bandettini 2014).


Bibliografia:

Artaud A. (2000): Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino.

Castellucci R. – Guidi C. – Castellucci C. (2001): Epopea della polvere. Il teatro della Sosìetas dei Raffaello Sanzio 1992-1999. Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi, Ubulibri, Milano.

Carroll L. (2006): Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Al di là dello Specchio, Einaudi, Torino.

Mallardi R. (a cura di) (2008): Literary Translation and Beyond / Traduzione letteraria e oltre. La traduzione come negoziazione dell’alterità, Peter Lang, Berna.

Raimondi R. (2007): Un’etica del lettore, Il Mulino, Bologna.


Sitografia:

Bandettini A. (2014): Chiara Guidi: L’immaginazione dei bambini fa teatro, «La Repubblica.it»

Guidi C.: Tifone





Titolo: Tifone

Regia: Chiara Guidi

Con: (in o. a.) Chiara Guidi, Fabrizio Ottaviucci
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio
Debutto: Cesena, VI° edizione di Màntica, un festival di Spettacoli, musica, incontri di critica e laboratori a cura di Socìetas Raffaello Sanzio, 25 ottobre 2013

Visto al Teatro Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini


Titolo: La Bambina dei fiammiferi

Regia: Chiara Guidi

Con: (in o. a.) Chiara Guidi, Fabrizio Ottaviucci, Lucia Trasforini
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio
Debutto: Cesena, P U E R I L I A festival di puericultura teatrale a cura Socìetas Raffaello Sanzio, direzione di Chiara Guidi, 25 ottobre 2013

Visto al Teatro dell’Arte