Vincenzo Martino

altDapprima vi è un granello di luce avvolto dal buio; nel mentre di un sensuale check vocale il granello si distende assumendo fisionomie discoidali; muta sfericamente in un occhio, che cristallino sottolinea una prima energica separazione tra bianco e nero, fra luce e ombra: la creazione a partire dalla storia dell’universo.


Isserley, seducente raccattatrice di autostoppisti, si muove impacciata sulle strade perdute delle Highlands scozzesi. Sobborghi desolati si alternano a centri cittadini più congesti, ma ugualmente avvolti da cieli uggiosi, piovosi, come in continua collera con la terra che li osserva dal basso; il terreno quasi profuma di bagnato e una nebbia perenne contribuisce a sfumare fisionomie, volti e parvenze, il senso delle cose. Bersaglio di questa tentatrice umanoide sono uomini privi di un’esistenza, di una meta, involucri da svuotare e dimenticare; ammaliati da un invito, sedotti da uno sguardo, intontiti da una visione, queste sacche di carne si trascinano in case abbandonate, vicoli dimenticati dai quali si libera un limbo, uno squarcio buio nel quale affondano mentre ammaliati osservano Isserley disfarsi dei suoi abiti; il loro è un dolce abbandonarsi, fanciullesco svanire durante una danza sirenica: affondano in quella che sembra una picea placenta, lì dove il tempo si arresta, i corpi si gonfiano quasi fossero polli ogm e fluttuano senza peso come astronauti alla deriva nello spazio profondo. Le loro membra, ossa, muscoli e cartilagini vengono poi trasportate da enormi, freddi vassoi da macello; ne resta solo la pelle che, svuotata, ricalca la fisionomia di chi un tempo era corpo.

Dal romanzo di Michel Faber (di cui il film è libera interpretazione) sappiamo che Isserley è stata inviata (o forse generata, considerando l’incipit) sulla terra da una razza aliena che serve carne umana come pietanza prelibata; il romanzo è scritto con piglio marcatamente satirico e provocatorio, una sorta di critica contro lo sfruttamento ambientale e animale perpetrato dall’uomo. Jonathan Glazer (supportato nella scrittura dal Walter Campbell) vira su un registro visionario, evocativo, degno della sua esperienza nel videoclip (note le sue collaborazioni con Radiohead e Massive Attack tra gli altri) dove indispensabile è produrre senso attraverso le immagini, tralasciando le parole. È facilmente leggibile in questo senso la scelta di ridurre al minimo i dialoghi nella pellicola, limitando peraltro quelle poche battute ad uno scozzese difficilmente comprensibile. Gli attori vengono ripresi da videocamere nascoste, senza l’ausilio di set prefabbricati, trasmettendo in tal maniera un disagio cognitivo che disorienta e angoscia.

La Isserley di Glazer è la più ingenua personificazione del fascino da predatore; il suo incedere prepotente e allo stesso tempo sospeso, il suo sguardo sulle cose, curioso come quello di un bambino, vanitoso come il volto di una giovane donna che si spalma rossetto guardandosi allo specchio, la rende più umana dell’umano, meno consapevole della sua natura e dunque più propensa alla scoperta; l’essere transeunte per antonomasia. Con l’avvicendarsi dei vari incontri la pelle umana che indossa scaverà sempre più nel suo corpo alieno, dilatando falle, intercapedini attraverso le quali emozioni e sentimenti si faranno largo violentemente. La compassione provata per un ragazzo storpio le rivolta contro anche la sua stessa specie (qui rappresentata da taciturni motociclisti) e nella fuga conosce gli affetti di uomo gentile, sperimenta il calore dell’amplesso, della violazione come crepa sotto la pelle, uno squarcio in quello splendido “Scarlett-abito”, il successivo disappunto per la brutalità dell’atto, la paura della fuga, cacciata come una bestia in una foresta, e il dolore della morte che chiude la sua parabola terreste. Negli ultimi istanti, toltasi la sua maschera da umana, la osserva, ed è come guardarsi in uno specchio consapevoli che in realtà ciò che si guarda è solo plumbeo riflesso di ciò che si è, un imbroglio, una beffa crudele.

La colonna sonora partecipa attivamente (e non potrebbe essere altrimenti per Glazer) alla suggestione indotta dagli eventi: i suoni graffianti, disturbanti, appaiono come automatica conseguenza degli scenari umidi di una Scozia irraggiungibile; melodie distensive si avvicendano a fastidio uditivo, suono che diviene interferenza galattica, una criptica assonanza che disorienta, confonde.
Nella sua costante ombrosa Under the Skin si pone al bivio tra gli Ultracorpi di Don Siegel e La cosa di Carpenter, traendo scenario grottesco ed inquietante dall’uno e lavoro crudo sui corpi dall’altro, mantenendo tuttavia un’impronta visiva unica, autoriale nei suoi campi lunghi e nei tempi d’inquadratura dilatati, nei primi piani abbaglianti e nell’immagine dell’asfalto perennemente bagnato.
Glazer confeziona un’opera intrisa di una sorta di realismo sospeso, dipingendo un luogo di mezzo fatto di paesaggi spogli e quotidiani così come di universi risucchianti racchiusi in casolari fatiscenti, un road movie di formazione atipico, manuale d’istruzioni per alieni travestiti da umani (e viceversa).


Filmografia

Under the Skin (Jonathan Glazer 2013)

L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers) (Don Siegel 1956)

La cosa (The Thing) (John Carpenter 1982)