Raffaele Cavalluzzi

altLa scena è una spiaggia desolata della costa atlantica dell’ Île-de-Rè, piccola, pacifica località presso La Rochelle, e il film (Moliére in bicicletta) del francese Philippe Le Guay si chiude con l’ultima battuta de IlMisantropo pronunziata da Serge-Alceste: «ormai detestata, l’umana natura per me è una spaventosa sciagura». Cioè con un sigillo d’impronta, oserei dire, preleopardiana.


La trama che la precede, ed è brillantemente caratterizzata dall’entrare e uscire dei personaggi tra la pièce e il film, è attraversata dall’intarsio realistico e raffinato di prove per la messinscena dei duetti centrali della commedia (con ripetuto, narcisistico scambio di ruoli, sul divano di casa o in bicicletta per solitari sentieri lungo la costa), tra i personaggi protagonisti di Alceste (per lo più interpretato da un grande attore in disarmo Serge-Fabrice Luchini) e di Filinte (più spesso fatto proprio dall’aitante Gauthier Valence-Lambert Wilson, ormai passato al successo di massa con una fiction televisiva). È Gauthier che tenta di staccare dalla depressione della provincia e da un’ostinata privacy Serge, l’amico di un tempo, per convincerlo a tornare sulla scena con la celebre opera di Molière.

E costui, che dal suo canto sembra dapprima resistere, sta via via al gioco di ritornare in campo con il rigore però e il rispetto senza sbavature della sontuosa metrica alessandrina del grande Seicento francese, contrapposti al tentativo di modernizzare, con entusiasmo più virile ma assai meno severo dell’altro, il conflitto assoluto tra sincerità morale e passione, che è il cuore della difficile, ma mai arresa rispettabilità di Alceste in un mondo di ipocrisie e falsità. Rispettabilità che finisce per affascinare, nel film, Zoe, una pornoattricetta che provoca a sua volta una schietta emozione con la dolcezza della recitazione dei poetici versi di Célimène, ma che, riferendosi al suo laido lavoro, ha poco prima candidamente ammesso, a straniare ogni facile idealizzazione del suo ruolo: «una doppia penetrazione alle otto del mattino non è facile».

Però la radicale sfiducia nel valore della vita del più stanco e intransigente tra i due attori (che ha avuto un figlio ormai lontano come la scienza dall’arte, e si è consegnato a una solitudine pressoché assoluta), si traduce, nel frattempo, proprio nei giorni della visita dell’amico e della vocazione professionale che sembra anch’essa riemergere, in una vacanza di qualche ora per un intervento di vasectomia (!).
Senonché, appunto quel giorno destinato a tagliare per sempre dalla sua esistenza ogni possibilità dell’attività procreativa, a Serge sembra di potersi riafferrare alla vita, all’amore, per via di un improvviso, intenso sentimento che avverte per Francesca (Maya Sansa), un’italiana ancora giovane e attraente da poco divorziata. Si sottrae allora ai ferri del chirurgo, e l’improvviso ritorno di ottimismo lo porta finalmente anche ad accettare la proposta di Gauthier.

Intanto, però, prima di firmare il contratto per lo spettacolo, l’ultima sera, uno screzio banale sembra poter tornare a compromettere tutto: Serge e Francesca seguono in tv con Gauthier una puntata della medical fiction da costui interpretata. La più o meno involontaria, ironica distrazione di Serge offende la vanagloria di Gauthier, che lascia la serata, seguito però, subito dopo, da Francesca: sembra solo una circostanza fortuita e un casuale equivoco, ma il giorno successivo, quando Serge, prima dell’incontro coi produttori dello spettacolo, si reca da Francesca, viene a sapere che la donna è partita. E Gauthier gli rivela che, in un momento di sconforto di lei, la sera precedente tra loro due, che si erano rivisti, era successo quello che non doveva succedere.

Serge risprofonda così in una depressione sgomenta più di prima, ma va lo stesso all’incontro in bicicletta bardato dei panni sussiegosi di Alceste, e litiga con l’antagonista per la sua vile meschinità, apostrofando malamente anche il mondo del teatro come abitato da topi di fogna e da uomini che azzannano come lupi. Rompe così il patto di alternarsi sulla scena, come nelle prove, con Gauthier: egli si sente e si dichiara come l’unico Alceste possibile, con le uniche capacità professionali e soprattutto morali del caso.

Per questo Il Misantropo alla fine sarà interpretato in veste di protagonista dall’altro, il quale, tuttavia, nella scena madre incespica nell’imperfezione linguistica tanto aborrita dal suo integerrimo avversario. L’arte non salva, così, dal ridicolo, né evita però l’esilio definitivo dalla vita emblematizzata dall’ultima scena del film e dall’accento preleopardiano di un estremo pessimismo sulla spaventosa sciagura dell’umana, detestata natura. E Fabrice Luchini è ancora una volta straordinario non solo nell’interpretazione, ma anche nella sceneggiatura, stesa a quattro mani da lui con il regista Le Guay.


Bibliografia

Molière (1995): Il misantropo, Giunti, Firenze