altÈ un film, questo di Schumacher (1999), costruito su una grammatica essenziale e che non sembra voler manifestare istanze autoriali forti, abiura le manipolazioni di segno espressionistico dei materiali audio e video (se si eccettua la scena dell’ictus del personaggio di De Niro, ricca di effetti visuali) e facilita la linearità della narrazione. Profilmico, modalità della ripresa e di montaggio tendono a una invisibilità da découpage classico e il regista sembra puntare tutto sulle cospicue performances attoriche di Philip Seymour Hoffman e De Niro, ai quali compete dar voce e carne a due non facili ritratti umani, quello di una eccentrica trans (Seymour Hoffman) e quello di un expoliziotto colpito da ictus (De Niro), sempre in bilico tra la ricerca della adeguata resa scenica e il rischio dell’eccesso caricaturale non voluto e del pietistico-lacrimevole non programmato.


De Niro: il corpo disfunzionale come paradigma esistenziale

La messa in rappresentazione dello stato di disfunzionalità corporea impone a De Niro l’esercizio di un senso della misura quasi millimetrico per evitare cadute nel pietistico-lacrimevole o nel caricaturale, e mantenere, contemporaneamente, le ragioni di una drammaturgia del corpo attorico in grado di rendere “interessante” la performance anche per quell’occhio particolarissimo che è la macchina da presa, con tutte le enfatizzazioni e plasticizzazioni del gesto che richiede.
La questione non era solo di rappresentare la menomazione corporea in maniera credibile, apparentemente non finzionale, e con questo senso della misura espressiva che la preservasse dagli scivoloni di cui sopra, ma di farlo in una maniera che, contemporaneamente, avesse la sufficiente evidenza schermica e fosse funzionale al punto di vista che dal film si vuole fare emergere.

Con il requisito dell’evidenza schermica si intendono qui tutti quegli aspetti di plasticità ed espressività che rendono certi gesti, certe posture e movimenti più funzionali di altri rispetto alla loro proiezione sullo schermo cinematografico, e dunque alla ripresa. Tale maggior resa funzionale riguarda sia il livello meramente visivo-fotografico – perché certe pose e certi movimenti sono “più belli” di altri sullo schermo – che quello semantico-significazionale, poiché certe posture o movimenti risulteranno più congeniali di altri alla sensibilità visiva, interpretativa o al progetto di senso del regista o dell’attore.
De Niro, da allievo provetto dell’Actors Studio, ci va giù pesante con l’immedesimazione e con la caratterizzazione, anche fisica del suo personaggio, sceglie di rischiare e di spingersi piuttosto in là con la rappresentazione della diminuzione funzionale del corpo: riproduce gli effetti di una semiparesi facciale storcendo il viso in una smorfia asimmetrica e impietosa che gli impedisce di pronunciare correttamente qualsiasi parola, inchioda le gambe e storpia vistosamente il proprio camminare, dona un tremito alle mani, tutto il corpo si accascia, non più sostenuto dal vigore muscolare di inizio film.

Quella dell’eccessiva esuberanza mimico-recitativa, l’accusa di overacting, è una delle critiche che più spesso sono state mosse a questa sua interpretazione, come pure a quella altrettanto teatrale di Seymour Hoffman, e non si può dire che questi detrattori abbiano propriamente torto, visto che in entrambe le performances c’è effettivamente molto di tutto: tanta mimica, tanto lavoro su posture e camminate (completamente deformata e patologica quella di De Niro, teatralizzata, spettacolarizzata da vera diva del cinema muto quella di Seymour Hoffman), tanta faccia, nel senso che le possibilità espressive e addirittura deformative del viso hanno qui un ruolo primario nella costruzione dei personaggi.

Al di là dei giudizi di valore più o meno ingenerosi mi pare proficuo sotto il profilo analitico riflettere sulle ragioni di cotanta abbondanza di mezzi espressivi.
È la natura impalpabile, puramente scopica del cinema a governare il ventaglio delle possibilità manifestative che si offrono a un attore o a un regista per poter rendere esistenti all’interno del film, oggetti, personaggi e sentimenti. Non avendo corpo fisico e tangibile, i mondi che il film istituisce e tutto ciò che in essi è “contenuto” esistono solo come immagine e, di contro, impongono una dimensione ontologica in cui non ha consistenza di esistente ciò che non si manifesta visivamente, ciò che non è tradotto in una immagine.

altÈ alla luce di questo tipo di considerazioni che dobbiamo intendere l’utilità funzionale di codici attorici come la mimica e l’espressività facciale, nella loro qualità di strumenti di traduzione in ambito visivo di istanze impalpabili, non visivamente percepibili, come le manifestazioni di tipo emozionale o le qualità di tipo psicologico.
Lo spettatore, cioè, potrà percepire la tristezza del personaggio X solo quando e se l’attore che lo interpreta contrarrà i propri muscoli facciali in una postura ben determinata (che imita la realtà) che in base all’esperienza quotidiana viene ritenuta come manifestazione visiva di quel sentimento.

La relazione dunque si espleta almeno su due livelli:

a) livello ontologico:

l’epifenomeno visivo (le espressioni dell’attore) dà consistenza ontologica (fa esistere) al sentimento corrispondente, poiché è solo grazie a quelle precise espressioni facciali dell’attore che si potrà ritenere che il personaggio stia provando una certa emozione e dunque considerare quel sentimento “reale”, esistente, all’interno della diegesi.

b) livello segnico-indexicale:

l’epifenomeno visivo fornisce l’informazione relativa all’esistenza del fenomeno per via inferenziale: se vedo il segnale manifestativo ne deduco che sta avendo luogo il fenomeno che ne è la causa, per esempio se vedo il fumo so che c’è il fuoco e so anche dove e di che dimensioni, per la stessa ragione se vedo l’espressione dell’attore saprò che il personaggio prova il sentimento corrispondente e saprò anche in che misura lo prova, cioè se è solo triste o se è, invece, disperato.

È in questo tipo di relazione che possiamo trovare una prima giustificazione alla scelta corporea da alcuni giudicata estrema di Robert De Niro, nella volontà di presentificare continuamente allo spettatore la condizione di malattia del suo personaggio, che ne è una delle caratteristiche salienti.
Uno degli accadimenti principali che riguardano il personaggio di Walt, infatti, quello che lo rende interessante in sceneggiatura e agli occhi dello spettatore, è proprio il suo passare da una condizione di grande salubrità e prestanza fisica (che nel disegno di senso generale ha connotazioni anche psicologiche) a una di menomazione e infermità che si trascina dietro anche quella psicologica ed emotiva.

La scelta di sottolineare insistentemente le lesioni di questa fisicità sembra quindi legata alla necessità, prima di tutto drammaturgica, di qualificare il personaggio, di presentificarne continuamente la situazione psicologica saliente che dipende da e si manifesta in una condizione che è prima di tutto corporea.
Sarebbe certamente stato possibile dar luogo alla medesima messa in scena utilizzando epifenomeni corporei meno appariscenti, che so, un piccolo tic, un tremito leggero ecc., che forse avrebbero reso meno smaccata la sopraggiunta patologicità del personaggio, meno ribadite le sue caratteristiche fondamentali; tuttavia io credo, come sembrano aver creduto De Niro e Schumacher, che una scelta del genere avrebbe reso meno agevole la lettura del personaggio per lo spettatore. L’errore che si imputa loro, sempre che di errore sia ammissibile parlare, si riduce allora all’aver sottovalutato le capacità di interpretazione e comprensione dello spettatore, nell’avergli fornito, de facto e non volontariamente, una lettura iperfacilitata del decorso psicologico di Walt, guidata in tutto e per tutto dall’evidenza quasi strillata del corpo di De Niro.

E proprio in questa muscolarità e nella prestanza atletica del gesto, su cui l’obiettivo ritorna volentieri, ritroviamo la prima e sintetica caratterizzazione del personaggio, che per estensione, applichiamo anche alla sua definizione psicologica, facendone da subito la cifra identificativa. Già da questa prima apparizione lo spettatore percepirà Walt come un personaggio “tosto”, un tipo duro come i muscoli che esibisce, pronto all’azione come le scattanti masse che torniscono le sue membra.
Il legame, ovviamente, è di tipo circolare: l’identità corporea di Walt esprime la sua cifra psicologica saliente, ma questa è quella che è, con tutte le sue caratteristiche di sicurezza e virilità, proprio perché sustanziata, “contenuta”, potremmo dire, in un corpo siffatto, attivo e vigoroso.

altLa relazione di dialettico contrasto che lega il primo e muscolarizzato Walt a quello di dopo, quello dalla fisicità dimidiata e offesa, non potrebbe essere più evidente, così come più palese non potrebbe essere il contrasto tra i ritratti psicologici che a queste condizioni del corpo si legano, un conflitto essenziale all’intera costruzione drammatica, senza il quale non si potrebbe innescare quella dinamica di riscatto personale che richiede la collaborazione di Rusty (Seymour Hoffman) e che quindi giustifica tutto lo sviluppo del legame tra i due personaggi.

D’altro canto sembra plausibile ritenere che non tutti gli effetti di senso scaturenti dalla parte di Walt dipendano dalla performance attorica di De Niro. È lecito infatti ritenere che nella fase di lettura di una perfomance come questa, in cui atteggiamenti e posture del corpo hanno un ruolo di prim’ordine, ai normali processi di decrittazione e interpretazione del fare attorico lo spettatore sovrapponga schemi interpretativi più specifici, inerenti alla portata significazionale della mimica e delle posture del corpo.
Non dimentichiamo il grande valore significazionale che quest’ordine di componenti, quelle mimico-gestuali e posturali, hanno ai fini di una determinazione certa del significato finale di un messaggio verbale: si stima che le componenti informative di tipo corporeo, con una netta prevalenza delle espressioni facciali, influiscano per circa il cinquantacinque per cento del valore complessivo.

Gli studi sulla cinesica e sulla prossemica hanno evidenziato chiaramente come dal portamento di una persona, dal suo modo di stare eretto o curvo, dal modo in cui muove le mani o gli occhi, dalla direzione del suo sguardo, dal grado di dinamicità-eccitazione dei suoi movimenti ecc., si possano cogliere tutta una serie di informazioni relative al suo stato emotivo,  se prova rabbia o gioia, se nei nostri confronti sente empatia o aggressività, se si sente in condizione di parità, dominanza o di sottomissione rispetto a noi, ecc.
La camminata baldanzosa di Walt, le sue spalle tese e dritte, l’abbigliamento ginnico delle prime scene  e quello elegante e rigoroso durante l’uscita serale al bordello, il senso di superiorità che manifesta non rivolgendo mai lo sguardo (e dunque la propria considerazione) verso la adulante prostituta con cui ha un breve scambio di battute sotto casa, la sicumera virile con cui si accende il sigaro sono tutti comportamenti del corpo (tra cui includiamo con lieve forzatura anche l’abbigliamento) che a livello di senso si collocano decisamente più sul versante dell’aumentare che non del diminuire, sono i gesti di un personaggio che si autoafferma in maniera decisa, anche dal punto di vista di come sta nello spazio, di come gestisce il suo corpo.

Ne scaturisce l’idea di un quadro psicologico di grande sicurezza, che affronta il confronto con gli altri senza alcun tipo di timore.
Esiste una sorta di legame speculare al negativo tra il vecchio Walt e il nuovo, tra il corpo del prima e quello del dopo, la cui lettura ci fornisce l’informazione circa il rovesciato quadro psicologico del personaggio.

L’asimmetria della linea delle spalle, ora storta e obliqua, trasmette a tutta la figura una connotazione di imperfezione, di debolezza strutturale, di generale diminuzione (estetica, funzionale, relazionale ecc.) di quel corpo. A causa di quelle attribuzioni significazionali che riguardano le posture e il gestire del corpo di cui dicevo prima, inevitabilmente, la nuova configurazione corporea di Walt viene letta anche come manifestazione di una diminuzione di quelle caratteristiche psicologiche di sicurezza in sé, di robustezza dell’ego, che in qualche modo trovavano la propria forma manifestativa proprio nelle qualità fisiche colpite.
La schiena prima drittissima si incurva, e insieme ad essa lo spettatore vede piegata la sicurezza personale di Walt; la camminata sciolta e certa, che tanto bene rappresentava la sua personalità esente da crisi, diventa balbuziente, difficoltosa e incerta.

altQuest’ultimo dato richiede un po’ della nostra attenzione poiché al cinema le qualità cinetiche dell’incedere di un personaggio (traiettoria, velocità, sicurezza del passo ecc.) sono spesso utilizzate per dirci qualcosa relativamente al suo stato psicologico ed emotivo. I personaggi che attraversano l’inquadratura con moto spedito, con traiettoria certa e diritta, altrettanto faranno con la vita, non vacilla la loro personalità e dal punto di vista cinetico-visuale non vacilla il loro modo di attraversare lo spazio. Pensi invece il lettore a un personaggio che entra in inquadratura essendo preda dell’insicurezza o della disperazione: arrivando da una certa direzione tentennerà un po’, forse si arresterà un attimo, incerto sulla direzione da prendere, un paio di passi in una direzione, poi un paio in un’altra, con lo sguardo che cerca tutt’intorno, muovendosi a destra e sinistra e non puntando mai dritto.

Più in generale quello che si osserva è che al cinema le variazioni cinetiche di intensità, di velocità e direzione (non solo del camminare, ma di tutto ciò che è gestus) sono ampiamente utilizzate da registi e attori per esprimere una qualche volontà di tipo denotativo o connotativo nei confronti del quadro emotivo o psicologico del personaggio. L’essere energici o fiacchi, continui e fluidi o spezzati, discontinui, l’essere lenti o veloci dei passi o dei gesti dell’attore, lungi dall’essere attributi che ineriscono al solo piano della resa mimetica dei fenomeni messi in rappresentazione, vengono utilizzati come strumenti di visualizzazione di analoghe qualità psicologiche o emotive.

Alla luce di quanto esposto, dunque, appaiono più evidenti le ragioni per cui agli occhi dello spettatore il lavoro svolto da De Niro sulla camminata di Walt manifesti in tutto e per tutto una diminuzione del personaggio che è anzitutto psicologica.
I passi si fanno minuscoli e intermittenti, le gambe rigide e l’equilibrio del tutto precario, instabile come quello emotivo di Walt. Il nuovo modo di stare e attraversare lo spazio del personaggio, se osservato con gli strumenti della cinesica, tutto ci dice circa il suo nuovo quadro psicologico.

In questo generale quadro di manifestazione corporea della diminuzione psichica del personaggio di Walt, ovviamente, ha un peso di prim’ordine la scelta di De Niro di bloccare la faccia in una smorfia congelata che impedisce, o che comunque limita fortemente la parola, e riduce drasticamente il ventaglio delle possibilità espressive a sua disposizione mutando decisamente la mappatura del volto attorico che ben conosciamo.
Innanzitutto, per una sorta di innata tensione all’omeostasi interna della performatività attoriale, la limitazione della parola forza De Niro a puntare maggiormente sul lato mimico-posturale e dell’espressione facciale, la quale, a sua volta, risulta in parte limitata dal bloccaggio della bocca, e dunque forzata a concentrarsi maggiormente sull’uso dello sguardo e sulle corrugazioni espressive delle arcate sopraccigliari e della fronte.

Anche in questo caso, dunque, sembra che le ragioni della scelta corporea siano da ricercarsi nella più intima drammaturgia dell’attore.
In considerazione di quanto detto risulterà meno aleatorio e unilaterale il legame di tipo proporzionale diretto che De Niro ha istituito tra la propria performatività mimico-gestuale e l’entità delle istanze emozionali che riguardano il suo personaggio. Un legame di relazione, questo, che viene percepito dallo spettatore anche sulla base di quei meccanismi di interpretazione che riguardano la dimensione non verbale del comunicare umano, e che ci portano ad attribuire valenze emotive alle posture del corpo, alla qualità dei gesti e alle espressioni del viso.
Sembra a questo punto più ragionevole ritenere che se di un qualche eccesso si possa tacciare la performance di De Niro questo non sia da ricercare tanto nella qualità attorica in sé stessa, quanto nel senso di debordante indicatività, nell’eccesso di senso che ne deriva per lo spettatore, il quale fruisce di una performance recitativa potenziata nei suoi effetti di senso dai procedimenti fisiologici e culturali di interpretazione dei segnali non verbali di tipo corporeo, che finiscono con l’aggiungere evidenza all’evidenza.

(Continua)


Filmografia

Flawless (Joel Schumacher 1999)