alt«Sono morto... quattro giorni fa. Come ogni mattina ero in macchina... e aspettavo Ula e Jacek. Il motore singhiozzava e la radio annunciava la pioggia. Ho avuto paura di sentire un dolore al petto. In realtà, a parte la paura, non ho sentito niente. Ho fatto un respiro profondo... ed è finita. [...] Ula e Jacek sono usciti di casa. Ula avanzava verso di me e io mi allontanavo. [...] Mi sentivo bene. Calmo. Silenzio. Anche se mi sembra che lei stesse gridando. Non sentivo né il mio solito mal di testa, né il peso delle chiavi nella giacca. Ho pensato che avrei potuto tornare in me se avessi voluto. Alzarmi e accompagnare il bambino a scuola. Ma stavo  meglio così. Molto meglio. Li guardavo mentre chiudevano la bara. È stato allora che Jacek ha capito, perché ha iniziato a piangere. Faceva freddo... ma lui non osava mettere in tasca le mani congelate. Sono tornato a casa. Non c'era nessuno». (Antek Zyro, Bez Konca, [Senza fine], Polonia, 1985).


Alla fine di luglio del 1914, dopo che Papini e Soffici avevano smarrito il Più lungo giorno, il manoscritto che conteneva tutte le poesie composte dal 1905 in poi; e dopo una riscrittura quasi a memoria nei mesi che vanno dall'autunno del '13 all'estate del '14, dopo minacce di morte ai due anfitrioni di «Lacerba», intemperanze, fughe improvvise («Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, a Berna»); scavando a fatica, in una mente già infragilita da anaffettività materna, ingiuste, precoci contenzioni, vessazioni da strapaese, debilitazioni da sifilide, oltre che da un'endemica, tracimante sensibilità; Dino Campana riesce a stampare i suoi Canti Orfici, presso la tipografia Ravagli di Marradi, cioè quello che sarà uno dei maggiori libri del Novecento, punto di riferimento non solo per poeti ermetici (Luzi, Bigongiari, Sinisgalli), “occasionalmente” ermetici  (Montale) o, come dire, post-ermetici (l'Amelia Rosselli della Libellula, Sanguineti, ecc.), ma anche per narratori, pittori, registi, musicisti, che negli anni si sono via via ispirati a questa poesia proprio per la sua natura così scopertamente iconica, musicale, cinematografica: «una poesia europea musicale colorita» la definisce Campana stesso al medico Pariani negli anni dell'internamento al manicomio di Castel Pulci.

E in questo senso qualche suggestione la mantiene pure Un viaggio chiamato amore, di Michele Placido, tratto dall'omonimo epistolario tra Campana e Sibilla Aleramo, che valse a Stefano Accorsi (nella parte del poeta) la Coppa Volpi per il miglior attore al Festival di Venezia del 2002, nonostante molte perplessità della critica (peraltro legittime credo), che si tramuterà in vero e proprio (assurdo) dileggio (per Accorsi e per il film) nel 2004 (con schiamazzi, fischi, rutti, peti dei più animaleschi alla proiezione per la stampa), quando lo stesso Placido presentò in concorso Ovunque sei, probabilmente ispirato a Senza fine di Kieślowski. Ma quelli erano anni in cui capitava di sentire nel bestiario veneziano (sintesi del serraglio scatologico che è spesso la critica cinematografica), fischi e disumani ruggiti, e ragli e nitriti di stalloni intenti a dimostrare la propria virilità di disamina (che però restava tutta lì, vibrante nel becero epifonema d'impotente) per film come Twentynine Palms; o di vedere Michele Placido (in giuria, un paio di anni dopo) uscire scandalizzato dalla Sala Perla (credo rivolgendo anche un rude vaffanculo al regista) dopo appena un'ora di proiezione di un capolavoro come Sang Sattawatt di Weerasethakul.

Sono passati cento anni esatti dalla stampa in poche centinaia di copie di quel libro dalla copertina giallina che cominciò subito a circolare per i caffè fiorentini, misteriosissimo già negli orli arricciati delle due iniziali C e O, che già dicevano un vorticare, una vertigine, tutta una costellazione di fantasmagorie, suggestioni (sempre al Pariani: «la suggestione può arrestare lo sviluppo del tempo»), risonanze ancestrali, un'iniziazione (vi risuonano I grandi iniziati di Schuré) che è alla poesia, al sentimento del tempo, alle potenzialità dello spazio, dell'eros.

Ammetto di non essere più riuscito a vederlo Ovunque sei, forse per non urtare la devozione che ho da anni verso Kieślowski, ma intuisco che forse resisterebbe in quel film, nonostante le stucchevolezze e le interpretazioni sopra le righe (quello che potrebbe succedere ad Elio Germano ne Il giovane favoloso: cosa che, lo ammetto, mi affascina), o forse proprio per questo, per involontari solecismi, un che di sfuggente, di oltremondano, e di dolorosissimo, nel confuso vagare di fantasmi dolenti e amanti, e nella loro coscienza del distacco, forse definitivo, da chi resta, visto allontanarsi nella devastazione autunnale.
Ora, uno dei film restaurati che verranno proiettati alla prossima mostra di Venezia sarà Senza fine, e questo basterebbe a dare senso a un festival che, certo, non è più quello mulleriano, ma comunque sussiste, sebbene nella coesistenza di una linea predominante narratologica e di interpolazioni, disturbi eidetici imprevisti, (in)sperati, e che ospiterà nel concorso principale registi come Abel Ferrara, Martone, Tsukamoto, Konchalovsky, Roy Anderson, Oppenheimer (con il mandato di concentrazione emotiva, eidetica appunto, affidato, secondo me, al solo Konchalovsky, almeno sulla carta), mentre a Locarno (a parte il Pardo alla carriera a un mostro sacro quale Victor Erice) sono in gara Vecchiali, Pedro Costa, Lav Diaz: ma, si sa, Locarno è territorio esplorativo, e sono sicuro ne usciranno sguardi inediti, talenti, sperimentazioni.

A differenza di Destino cieco, di cui esiste in Italia una versione in pellicola custodita da Lab80 di Bergamo, finora non era possibile vedere Senza fine sul grande schermo (ma potrei sbagliarmi), se non usando magari il dvd uscito qualche anno fa per le edizioni San Paolo (con tutte le ripercussioni  che ci sarebbero in fatto di sgranature dell'immagine). Fatto sta che lo vedremo; e quanto più lo schermo sarà grande, tanto più le sagome e le aure fantasmatiche semoventi su quel piano ipotetico ma non meno reale di un pubblico che sta lì a guardare, ci investirà con le sue luci, i suoi volti, il suo sordo, ramingo dolore. Ula che cercherà di dimenticare Antek, e in questo modo lo sentirà sempre più presente, come un morbo, un vento che arriva da non so dove, ostinato, da dietro lo schermo, nella casa vuota, dalla trasparenza delle finestre, sulla superficie ancora calda delle lenzuola; e non c'è assenza, non c'è mancanza a cui assuefarsi perché...