altLet’s Do It a Dada
(Einstürzende Neubauten)

Non pende nulla dai ganci da macellaio sospesi a mezz’aria sul palco.
Messi davanti all’assenza, la nostra attenzione è subito rivolta a ciò che manca. Bisogna soltanto fare un po’ più d’attenzione per accorgersi che la situazione è ribaltata: è dal cadavere che penzolano gli uncini. Ma ci sarà tempo a sufficienza per capirlo; otto ore ad essere precisi (tanto quanto una giornata lavorativa) per rendersi conto che la carcassa è tutt’attorno, e noi spettatori ne siamo parte: This is theatre like it was to be expected and foreseen (Questo è teatro come ci si doveva aspettare e prevedere).


Opera-mondo, epocale e assoluta, definitiva; in continuo divenire e per questo (fuori)formato. Creazione eccessiva, sovrabbondante, e in quanto tale perturbante; realizzata da Jan Fabre, padreterno onnipotente, febbrilmente posseduto dall’estro di un’ambizione militante, inconciliabile ai modi rappresentativi conformi ai dettami dell’industria culturale. «La grandezza di un artista – diceva Nietzsche – non si misura  dai “bei sentimenti” che egli suscita: lo credano pure le donnette. Bensì dal grado in cui si avvicina al grande stile, dal grado in cui è capace di grande stile» (Nietzsche in Bottiroli 2006, p. 363). E con This is theatre… Fabre allestisce una vera e propria affatturazione wagneriana declinata in chiave dadaista, uno spettacolo che testimonia la propria valenza ontologica, che riflette su sé stesso (in quanto dispositivo teatrale) e sul senso del proprio fare.

In principio è il buio che domina la scena, fissata frontalmente dalla moltitudine del pubblico. Ad uno ad uno gli attori-perfomer conquistano il palco, facendosi strada nell’oscurità con una candela che riflette la loro figura sul fondo. Un’attualizzazione del mito della caverna che ci rimette di fronte alla maledizione platonica della fatalità delle ombre, condannate a dire sempre e soltanto il riflesso delle cose.

Con un gesto di tautologica iconoclastia Fabre smaschera immediatamente la natura simulacrale dello spazio d’illusione. E per evitare fraintendimenti, ecco che, da lì a poco, rincara l’effetto duplicando, in maniera ancor più rimarcata, la rappresentazione: i corpi che ci si agitano davanti si ritrovano a cortocircuitare con la proiezione dei loro doppi filmici. Il gioco di specchi che si viene a creare causa vertigini rivelatorie: This is theatre… è un’opera in cui vige la rifrazione, costruita sull’evidenza dell’artificio; quanto avviene sulla scena non appare mai come immediatezza, presenza pura, ma sempre come moltiplicazione: il suo esistere dipende esclusivamente dalla categoria della ripetizione.

Ripetere e ripetersi; questa è un’altra dannazione, uno dei limiti costitutivi del linguaggio spettacolare su cui Fabre sceglie di accanirsi isolando ed esasperando la reiterazione. Il regista, in aggiunta all’operazione condotta attorno alla parola derubricata a flatus vocis privo di senso, prende un uomo e una donna dai nove interpreti coinvolti e, ininterrottamente, per più di due ore li fa svestire e rivestire. Ogni nuova sessione si apre con le battute che vicendevolmente si rivolgono:
«Ready?»
«Made!»

Oltre a questo calembour, anche brani di intervista trasmessi nel corso dello spettacolo chiamano in causa Marcel Duchamp, padre ispiratore di Fabre, da cui eredita, come ben si vede, il nichilismo radicale, il disprezzo per ogni dottrinarismo, il carattere distruttivo e performativo con cui esprime il proprio rifiuto verso tutte le mistificazioni intorno all’arte.

Non potendo non tener conto del compiaciuto sadismo con cui Fabre si rapporta ai suoi collaboratori, vien quasi da pensare che egli abbia poi affinato questa predisposizione alla distruzione totale sulle pagine del Catechismo del rivoluzionario, proprio per il ritenersi autorizzato, come lo scritto prevede, a volgere la violenza sovversiva anche verso i propri stessi sodali. Ma in realtà il regista non fa che esibire, estremizzandolo, il funzionamento della dialettica servo-padrone che sta alla base della creazione teatrale.

E che lo spettatore non si azzardi a ritenersi estraneo alle dinamiche sadomasochistiche insite nel dispositivo rappresentativo; egli non è semplicemente coinvolto, ma soggetto determinante. È il destinatario, senza il quale l’opera non esisterebbe. Per renderci consapevoli dell’importanza che abbiamo all’interno della catena comunicativa artistica, Fabre allestisce un quadro di crudele tensione, difficilmente sostenibile (la parola crudeltà è da intendersi in senso artaudiano, quindi nei termini di coscienza applicata). Su ciascuno dei ganci, di cui si è già detto, viene appeso un sacchetto ripieno di latte. Bucato e fatto ondeggiare il liquido scola e imbratta il palco. A carponi, come cani col muso a terra, i performer ripuliscono, leccando tutto fino alla nausea, costretti a rispettare quel tacito accordo che li obbliga in scena finché c’è qualcuno che rimane ad assistere. Fabre è implacabile nel denunciare, fuor di metafora, il confronto/scontro fra il sadismo spettatoriale e il masochismo attoriale.

Per il dadaismo «la disgregazione ad oltranza dell’opera può avvenire solo attraverso un’altra opera cui attribuisce un carattere negativo» (Morroni 2009, p. 66), tramite cioè la detronizzazione di un artefatto. Fabre, che della poetica dada e ancor più della rigorosissima estremizzazione duchampiana è spregiudicato continuatore, con This is theatre like it was to be expected and foreseen compie un’operazione estrema e violenta (se non rivoluzionaria, perlomeno di rivolta): realizza un’opera-killer che distrugge il teatro servendosi dei suoi stessi mezzi.

In collaborazione con Teatroteatro.it


Bibliografia:

Bottiroli G. (2006): Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino.

Morroni A. (2009): Jacques Rigaut, Scrittore senza opere, in «Àgalma, rivista di studi culturali ed estetica», 17, Mimesis, Roma.





Titolo: This is Theatre like it was to be expected and foreseen

Regia: Jan Fabre

Con: (in o. a.) Piet Defrancq, Melissa Guérin, Carlijn Koppelmans, Lisa May, Giulia Perelli, Gilles Polet, Pietro Quadrino, Merel Severs, Kasper Vandenberghe
Produzione (re-enactment): Troubleyn/Jan Fabre
in coproduzione con deSingel, (Anversa, Belgio), Romaeuropa Festival (Roma)
Debutto: (Riallestimento dell’originale del 1982) Roma, Teatro Eliseo, 20 ottobre 2013

Visto al Piccolo Teatro Strehler


http://www.youtube.com/watch?v=8-fwTyX4PKQ