altIl palcoscenico del mondo

Opera giovanile di Jan Fabre riproposta oggi in occasione del trentesimo anniversario dello spettacolo e della fondazione della compagnia Troubleyn, secondo un’operazione definita dall’autore di re-enactment.




Spettacolo tutt’altro che datato; anzi, appare ancora oggi più all’avanguardia di tanto teatro sperimentale contemporaneo. Grande provocatore, Fabre comincia subito a minare le fondamenta teoriche stesse del teatro. Il testo recitato, se così si può definire, sembrerebbe una storia del teatro, ma in realtà questo consiste in una pura elencazione vuota di spettacoli, testi, festival con data e anno di rappresentazione. Uno snocciolare spasmodico, che si porta avanti per quattro ore e venti, un catalogo del teatro fine a se stesso, che si conclude, come in un’ottica teleologica, con un titolo dello stesso Fabre, coronamento della storia dell’arte teatrale.

Una litania che trova il suo apice quando i performer per oltre mezz’ora proseguono a listare titoli e autori, correndo da fermi, arrivando allo stremo delle forze. Un dichiarato falso movimento che non arriva da nessuna parte.

Appare evidente fin da subito in realtà la volontà di Fabre di sfondare lo spazio teatrale, di aprirlo a nuove dimensioni, di ibridare le varie forme artistiche, di usare il teatro come un contenitore delle arti della storia dell’umanità, di farne un’arte totale e onnicomprensiva. E coerentemente a quest’ottica l’artista viola subito la quarta parete con i performer che, dopo aver accolto il pubblico fermi di spalle sul fondo del palcoscenico, si muovono nello spazio come bollicine in un bicchiere, occupano il palcoscenico per diradare ai margini del proscenio e cadere fuori di colpo. E così una performer rimasta giù cercherà insistentemente di risalirvi, sempre impedita da un altro performer, in una scena spasmodica, che sembra ripetersi all’infinito. E sempre al bordo del proscenio avviene la prima azione di equilibrismo, sul filo del rasoio, con i performer che si muovono bendati come su un asse da funamboli.

Il lavoro di Fabre è una decostruzione del teatro, un suo smembramento, attraverso la ricerca di un dialogo con le altre forme artistiche: i quadri sul fondo, la musica; attraverso una messa in risonanza della classicità – ancora le opere pittoriche sullo sfondo – con l’avanguardia. «Non c’è avanguardia se non c’è un dialogo con la tradizione» sostiene Fabre.

In quest’ottica va vista la concezione stessa del tempo che trapela da questo spettacolo, che si fonda sulla ripetizione o sull’inseguimento di utopiche durate reali. Le scene potrebbero durare all’infinito, il concetto di conclusione è assai labile. Fabre asseconda il tempo, lo abbraccia, non vuole comprimerlo o forzarlo. E così lo spettacolo dura quattro ore e venti, delle quali lo spettatore è tenuto a seguire solo i primi venti minuti, dopodiché è espressamente lasciato libero di entrare e uscire dalla sala. E così si può assistere alla scena in cui i performer ripuliscono il pavimento dai cocci di piatti che sono stati precedentemente rotti. Ancora un momento estenuante, dove viene raccolto tutto, cercando con pazienza ogni minimo frammento che possa essere rimasto. E questa scena è emblematica di una concezione che vuole esibire tutto (il retroscena entra nella scena), così come esprime la continua oscillazione tra contaminazione e pulizia, nudità e vestizione, caos e ordine, esplosione e implosione, luce e oscurità, che pervade tutto lo spettacolo. In un altro spettacolo che si è visto in Italia, My Movements are Alone Like Streetdogs, la performer spargeva yogurt sul palco per poi leccarlo via.

Il nudo, che si pone in relazione con la storia dell’arte, si contrappone alle divise che esprimono una sensazione militaresca (sono prese in effetti da quelle degli aviatori belgi). O alle sinfonie di baci che intonano la Marcia nuziale di Mendelssohn, o ai due re nudi che danzano in una rielaborazione gay de I vestiti nuovi dell’imperatore. Centrale in quest’ottica la scena del ballo con i danzatori in abito nero e paillettes che vengono interrotti, bloccati e torturati dai militari. Mentre a ogni atto di denudarsi corrisponde il momento, estremamente delicato, di riporre e ripiegare i vestiti. E il forte senso scenico, l’occupazione dello spazio, la pulizia dei movimenti del corpo, il ritmo, le stasi scultoree, possono assumere una connotazione di disciplina militare, ma anche sfociare in vere e proprie azioni di mimo, o danze minimaliste. E a ciò si contrappone la condizione di animalità perseguita spesso dai performer, sottoposti allo stremo di prove corporee ai limiti della resistenza fisica, alla mortificazione, una regressione che si esprimere nel ricorrere di figure canine, tipico di Fabre.

In collaborazione con Teatroteatro.it





Titolo: The Power of Theatrical Madness

Regia: Jan Fabre

Con: (in o. a.) Yorrith De Bakker, Piet Defrancq, Melissa Guérin, Nelle Hens, Sven Jakir, Carlijn Koppelmans, Georgios Kotsifakis, Lisa May, Giulia Perelli, Gilles Polet, Pietro Quadrino, Merel Severs, Nicolas Simeha, Kasper Vandenberghe,
Produzione (re-enactment): Troubleyn/Jan Fabre
in coproduzione con deSingel, (Anversa, Belgio), Romaeuropa Festival (Roma)
Debutto: (Riallestimento dell’originale del 1984) Roma, Teatro Eliseo, 16 ottobre 2013

Visto al Piccolo Teatro Strehler


http://www.youtube.com/watch?v=ItGNRRrfWw4