Andrea Bruni

altOltre la soglia

«I manicomi sono ricettacoli di magia nera consapevoli e premeditati/e non solo perché i medici favoriscono la magia con le loro cure intempestive e ibride/loro ne fanno» (Antonin Artaud, Alienazione e magia nera, 1946, dopo nove anni di ricovero coatto).

Chi si ricorda di Charles “Chas” Addams, maestro di humor noir, implacabile vignettista di «The New Yorker», il papà della più amorevole e scombinata delle famiglie assassine. Bene, pare (pardon, ma qui ci si nutre di leggende) che il babbo di Morticia, Gomez & C., una volta all’anno si stancasse del quotidiano, costante, “paso doble” sul baratro della follia, e decidesse di fare il gran salto, di lasciarsi andare oltre il bordo di quell’orrido, di quel precipizio ghignate. Addams allora disegnava una vignetta talmente raccapricciante, abbozzava un disegno presago di innominabili atrocità che, neanche il tempo di posare il pennino, e due nerboruti infermieri – camicia di forza ben stretta fra le manone – suonavano alla porta di casa sua…
Lasciarsi andare: allucinatorio manifesto per cinetiche extravaganze. Oltre la soglia.

Tra le spire di Medusa e di Mother Gin Sling

«La migliore interprete che abbia visto in vita mia, quella che più mi ha impressionato, era rinchiusa in un manicomio: un’attrice che aveva superato la soglia di quella regione in cui si sognano soltanto applausi» (Josef Von Sternberg,2009)

Il dandy Von Sternberg, nella sua sontuosa e al tempo stesso tempo raffinata autobiografia, ci racconta che fu costretto a girare I misteri di Shanghai (The Shanghai Gesture, 1941) sdraiato su di una branda. Non ci spiega lo origini di tale disagio. Probabilmente (siamo nel campo delle illazioni, che stan di casa vicino al Mito) una febbre che gli fiaccava le membra ed offuscava la mente, facendogli vedere doppio: nell’Oriente ctonio e ferino, immaginato dal regista come un imbuto dantesco, la sua Musa Cannibale, quella Marlene Dietrich a cui ha dedicato ogni stilla del proprio sangue, si sdoppia in una duplice Divinità Femminile: da un lato la sventata Poppy (una Gene Tierney da sindrome di Stendhal), la cui venustà potrebbe portare in guerra più nazioni, e dall’altra parte Mother Gin Sling (Ona Munson nel film della eterna consacrazione), la proprietaria del Casinò Infernale. Il compianto Giovanni Buttafava ci descrive magistralmente la sua entrata in scena:

«Ha una vestaglia preziosissima e una parrucca enorme e lavorata (la prima di una serie mozzafiato di parrucche: tutte hanno liste di capelli laccati lunghissime che si ergono nello spazio, come guglie, o si arrotolano fra pietre preziose). La sua discesa verso il fondo centrale dell’abisso, la roulette, è seguita da tutti, trepidanti… È Mother Gin Sling». (Buttafava 1976)

Octave Mirbeau, nel suo sensuale e sadico Il Giardino dei Supplizi (sentina di altri inferi cinesi, per altro), non avrebbe saputo fare di meglio nella descrizione di tale Dark Lady definitiva, hollywoodiano parto di un genio colto da febbrile ispirazione. Una romantica – in senso letterario – Sehnsucht, una brama dolorosa, una eterna inquietudine che, uccisa la Stille (serafica quiete da Parnaso durante la siesta), conduce al Deliquio: stato che Von Sternberg, con inusitata violenza, lascia deflagrare nella sequenza del “Capodanno Cinese”: mandrie di umanità inselvatichita, fuochi d’artificio, draghi di carta di riso, petardi come eruzioni laviche, e poi, immagine filtrata – come un gioco illusorio da Panopticon – dalle finestre del salone di Mother Gin Sling, una pioggia di fanciulle discinte rinchiuse dentro a gabbie dorate…

altMarcia funebre per un agnellino

Sir Alfred Hitchcock ha sempre saputo comandare a bacchetta i propri fantasmi, domandoli e sedandoli, vincendo (quasi) sempre le silenti partite a scacchi con l’Es. Il cuore del grande regista inglese era come un sigillatissimo Vaso di Pandora: una tantum, però, qualche Demone minore riusciva a sgusciar via lungo il pavimento, prendendo possesso di quel mitico corpaccione… Fu senza dubbio una priapesca possessione quella che, nel 1972, lo portò a confidare, eccitato, la propria passione per la gamba amputata della Deneuve in Tristana ad un annoiato Buñuel, durante il celeberrimo pranzo nella villa di George Cukor (ce lo racconta lo stesso Maestro spagnolo – Gran Cerimonerie nell’arte delle Ossessioni – nella sua autobiografia Dei miei sospiri estremi). Amante delle Arti, e del Surrealismo in particolare, Sir Alfred nel suo cinema

«a lungo giocato sul filo dell’ironia e dell’umorismo, del grottesco e della bizzarria, nel procedere degli anni si sia orientato con sempre maggiore determinazione verso allucinanti drammi senza sorriso (Psycho, The Birds, Frenzy) specchio della sua personale, dolorosa e crescente inquietudine esistenziale. In questo egli si iscrive a pieno titolo nella variegata pluralità surrealista, conciliando – o contrapponendo in sé – le due anime del movimento: di chi da un lato coltiva l’elemento ludico e beffeggiatore, e di chi, dall’altro, esprime un irrefrenabile stato di angoscia». (Laura 2005)

Ci piace comunque pensare all’estremo sberleffo surrealista compiuto dal Maestro: ci riferiamo a Come servire un agnello (Lamb to the Slaughter), episodio da lui stesso diretto nel 1958 per il ciclo Alfred Hitchcock Presents. In esso una donna che, guarda caso, si chiama Mary, uccide il consorte fracassandogli il cranio con un cosciotto d’agnello che poi viene prontamente cotto a puntino. Giunge la polizia, ma Nostra Signora dei Fornelli invita gli agenti a dividere con lei quel fumigante pezzo di agnello… Se Hitchcock vi avesse aggiunto, per dire, un Cristo sghignazzante, come in un quadro di Clovis Trouille (o nel Nazarin del sodale ispanico…), avrebbe forgiato la prima “parabola surrealista” della catodica ed il mondo avrebbe visto, in tutta la sua fosca potenza, palesarsi la Dark Half hitchcockiana…

altAll’ombra dei nazisti in fiore

In Luchino Visconti di Modrone, conte di Lonate Pozzolo, tutto è Teatro. La vita, con le sue passioni vissute con l’intensità di un melodramma di Giacomo Puccini; il mondo, osservato sempre col binocolino dell’esteta; le opere, perché, anche quando dietro alla macchina da presa, è l’assito di un palcoscenico quello che si sente scricchiolare in un vorticare di pulviscoli sciabolati dalle luci di scena. Eco probabile di quel teatrino familiare, nell’avito palazzo di via Cerva, ove la madre, Carla Erba, adorava organizzare piccole rappresentazioni con l’amichevole complicità dell’aristocrazia milanese. Anche nella fase conclusiva del suo opus creativo, negli anni trascorsi sotto il vessillo della Finis Austriae, un disincantato Conte Rosso medita su mitteleuropei sfaceli pensando ai Buddenbrook per arrivare al Trono di Sangue del Macbeth. È lui stesso a dircelo, in una intervista apparsa su «La Stampa» nel 1969:

«Da tempo pensavo ad una storia ambientata nella Germania. La prima idea era stata una versione cinematografica dei Buddenbrook, poi una edizione moderna del Macbeth. Infine, per raccontare una vicenda che fosse testimonianza e documento di una realtà ancora attuale, una storia di violenza, sangue e bestiale volontà di potere, ho scelto il momento in cui in Germania nasce e si impone il nazismo». (Rondolino 1975)

Il film partorito è, ovviamente, La caduta degli Dei, feroce descrizione della decomposizione dei von Essenbeck, industriali dell’acciaio, che bruceranno negli altiforni della dannazione, durante il lento, ma inarrestabile apogeo del Nazismo. Mann impegnato in un cupo walzer con Dostoevskij, il  “Deutschland Kabarett” che si fonde con l’Epos wagneriano, Robert Musil con La storia del Terzo Reich di William L. Schirer, il tutto sotto i riflettori espressionisti comandati ad arte da Pasqualino De Santis e Armando Nannuzzi. Ma, incredibile dictu, per la prima volta il Conte di Mudrun scopre, grazie alla Storia, il fascino del Grand Guignol. E si lascia, pur se per poco, trascinare oltre la soglia.

Nella parte centrale del film, Visconti si occupa, quasi avesse la lente del monocolo appannata, della famigerata “Notte dei Lunghi Coltelli”, con infinito (dis)piacere. La “Nacht der langen Messer” fu rappresentata da un grappolo di ore da incubo, fra il 29 ed il 30 giugno del 1934 in cui Hitler fece massacrare dalle SS tutti gli oppositori interni legati alle SA (Sturm-Abteilungen, cioè “le truppe d’assalto”, una organizzazione paramilitare). Visconti ne descrive, prima, i riti militari, che dal cameratesco trascendono verso spiriti (in senso alcoolico) da baccanale teutonico. Per poi aprire le danze su di una allucinata Totentanz, difficilmente dimenticabile. Splendidi efeboni sudati in guepiere, balletti en travesti più adatti al Joel Grey di Cabaret che a un manipolo di guerrieri, strani congressi carnali tre le docce e i corridoi: come se i miti ariani di Leni Riefenstahl fossero sceneggiati da Jean Genet… Il primo a subodorare la nota dissonante fu l’austero Pasolini che in un articolo su «Il Tempo» del 22 novembre, rivolgendosi direttamente al nobile collega (con cui non ebbe mai grandi rapporti, anzi…) scrisse:

«Il tuo film cade nella seconda parte: dal momento in cui per una stradina buia, appena illuminata da un'aurora atroce, lampeggia opaco il faro di una motocicletta (che è un momento sublime, come direbbe un po' fatuamente un ragazzo dei «Cahiers» e come dico, sul serio, io). Da quel momento la tua ispirazione è venuta meno: la strage è fatta «cinematograficamente», senza mistero, con litri di colorante rosso sui corpi dei generici; l'SS Aschenbach si sfalda, diventando da personaggio di comodo, personaggio di romanzo d'appendice – giungendo a piluccare l'uva, mentre il figlio sta per violentare la madre – con la calma dei personaggi accademici di de Sade; anche tutti gli altri personaggi si sfaldano, perdendo ogni mistero». (Pasolini 1969)

Interessante che, sei anni prima di Salò, Pasolini citi il Divin Marchese: nessun crescendo melodrammatico nelle luride vicende del Duca, del Monsignore, dell’Eccellenza e del Presidente, ma solo un atroce, doloroso, sarcasmo, servito con algida, geometrica, lucidità.


Bibliografia

Artaud A. (1998): Dossier di Artaud le momo, (alienazione e magia nera), in «Aut aut», 285/286, maggio-agosto, pp. 204-210.

Buñuel L. (2008): Dei miei sospiri estremi, SE, Milano.

Buttafava G. (1976): Joseph von Sternberg, La Nuova Italia, Firenze.

Laura E.G. (2005): Hitchcock e il surrealismo: il filo inesplorato che lega il maestro del cinema all'arte del Novecento, L’Epos, Palermo.

Mirbeau O. (1991): Il giardino dei supplizi, SugarCo, Milano.

Pasolini P.P. (1969): Quel faro di motocicletta, «Il Tempo», XXXI, 47, 22 novembre.

Rondolino G. (1975): Luchino Visconti, Utet, Torino.

Shirer William L. (2007): La storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino.

Sternberg J. Von (2009): Follie in una lavanderia cinese, Lithos, Roma.


Filmografia

Cabaret (Bob Fosse 1972)

Come servire un agnello (Lamb to the Slaughter) (Alfred Hitchcock 1958)

Frenzy (Alfred Hitchcock 1972)

I misteri di Shanghai (The Shanghai Gesture) (Josef von Sternberg 1941)

La caduta degli Dei (Götterdämmerung) (Luchino Visconti 1969)

Nazarin (Luis Buñuel 1959)

Psycho (Alfred Hitchcock 1960)

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini 1975)

The Birds (Alfred Hitchcock 1963)

Tristana (Luis Buñuel 1970)