Gemma Adesso

«Piegare non si contrappone a spiegare, piegare significa piuttosto tendere-distendere, contrarre-dilatare, comprimere-esplodere (ma non condensare-rarificare, dicotomia che implicherebbe il vuoto).» (G. Deleuze)

Il libro di Bruno Roberti sul cinema di de Oliveira (Manoel de Oliveira. Il visibile dell’invisibile), è letteralmente una esplosione di pieghe che si tendono e si dilatano in una serie di rimandi interni, nella moltiplicazione di visioni e citazioni, in spazi ariosi e scuri luoghi della memoria. La scrittura gesticola la visione, la rincorre e la precede senza mai restare impigliata nell’impaccio delle trame e delle spiegazioni, ma rinfrangendone gli abbagli in un gioco caleidoscopico di gesti sospesi, voli, accenni di cadute. Spiegate, al massimo, sono le ali dell’Angelus Novus ripreso, come muto testimone del processo incompiuto della creazione, nel movimento immobile dello sguardo rivolto a un trascorso ancora prossimo e polveroso, ma percorribile: «allora il movimento del ritorno è quello di un avvento, come per l’Angelo della Storia di Benjamin il cui sguardo è spinto da un contraccolpo d’ali» (Roberti 2012, p. 187).

Le evidenze del cinema appartengono alla dimensione dell’intravista, a quel “guardare-tra” le incrinature delle storie per tracciarne una cartografia in movimento-attraverso lo sguardo. Il cinema di de Oliveira è esattamente lo spazio del ritorno nel luogo ambiguo della soglia: se un’interruzione indefinita delinea i contorni delle presenze, la precisione della durata delle apparizioni ne accorda le scomparse. Roberti sta dentro l’opera di Oliveira come il pittore nella città (O Pintor e a Cidade, 1956), riconosce la strada del ritorno a casa, ma, per dimenticarla, traccia i contorni di una nave evanescente come appunti della memoria di un secolo da perdere e recuperare. La longevità è nella brevità del tratto, in quel trattino godardiano che unisce nel vuoto; a tracciarlo è il pittore, è «Velázquez, che alla fine della sua vita dipingeva non le persone e le cose definite, ma quello che c’era tra le persone e le cose» (ivi, p. 199) e ne dilatava la fine rendendola inaccessibile.
Non è solo un libro su de Oliveira, ma una riflessione sulla storia del cinema, sulla storia e sul cinema. Non è solo una biografia, ma una autobiografia in cui il contorno del volto di “un altro” è sì tracciato, come in un sogno di Cocteau, ma su uno specchio; il ritratto è il movimento stesso (cinema), un ritrarsi da sé, cioè un voltarsi statico verso l’altro (scrittura).

Attraverso la scansione in tre mo(vi)menti topici di questo cinema (ripetizione, intervallo, ouverture rovesciata), Roberti-Oliveira sviluppa una vera e propria teoria della visione in cui “l’essere guardati” è un atto che perverte mentre riverginizza in un capovolgimento del punto di vista che viene a coincidere con il volo: gli oggetti dirigono le scene e muovono le azioni degli attori rapiti nell’atto di guardare verso un orizzonte indefinito, le palpebre chiuse partecipano a questo gioco di magnetismi e corrispondenze con un fuori campo immaginale, i movimenti delle cose sono momenti dello sguardo, lo sguardo consente il volo delle cose, degli attori e di chi guarda.
I movimenti del volo coinvolgono corpi, oggetti e fantasmi in uno scambio di vertigini tra cielo e terra; i momenti dello sguardo sono delineati attraverso tre sequenze (le ali ai piedi; oggetti volanti; caduta e volo dell’angelo) estrapolate da La valle del peccato (1993), Il quinto impero (2005) e Lo strano caso di Angelica (2010).
Le domande restano senza risposta (Cosa stiamo vedendo, e chi? Ovvero chi guarda, o chi ‘ci’ guarda? Cosa c’è dopo e cosa prima?) perché quello che si immagina esiste nel «film come autoritratto invisibile” (ivi, p. 48), in un fuori campo impensato che coincide con la vita: «credo che non sia possibile avere veramente un pensiero sul cinema, al contrario è il cinema che fa un pensiero sulla vita. Tutto riposa nella vita» (Manoel de Oliveira). Tra questa scrittura e questo cinema si viene così a creare quel raro e ancestrale riconoscimento che si compone in immagine; l’altra forma della persistenza si dà in quello che Roberti chiama “l’amalgamarsi della pelle e della maschera” in una sorta di contatto in differita tra visibile e invisibile: «Il filmare di de Oliveira diventa così un clairvoyant e il suo interpellare lo spettatore, attraverso l’altro, tende a fare percepire l’amalgamarsi della pelle e della maschera (che è come dire la pellicola con la scena, del corpo del regista-spettatore con l’attore che agisce), nell’intravedere sia la pelle che la maschera» (ivi, p. 75).
Dal ricordo luminoso del Douro (Douro Faina Fluvial, 1931) all’ombra della sempre penultima visione (O Gebo e a Sombra, 2012) il cinema di de Oliveira, come la scrittura di Roberti, riporta in-vita i fantasmi che ci abitano.


Bibliografia

Roberti B. (2012): Manoel de Oliveira. Il visibile dell’invisibile, edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma.


Filmografia dei film citati di Manoel de Oliveira

Douro, lavoro fluviale (Douro, Faina Fluvial) (1931)

Il pittore e la città (O Pintor e a Cidade) (1956)

Il quinto impero - Ieri come oggi (O Quinto Império - Ontem como Hoje) (2005) 

La valle del peccato (Vale Abraão) (1993)

Lo strano caso di Angelica (O Estranho Caso de Angélica) (2010)

O Gebo e a Sombra (2012)