Vincenzo Martino
Fotografie logorate dal tempo, interni fatiscenti, specchi rotti e strumenti da lavoro corrosi dal sangue e dalle carni, corpi in vitro immortalati in espressioni sofferenti; una melodia che appare più un ululato incalzante mentre le fiamme avvolgono un tempo cristallizzato, ignifugo: il tutto inserito in quella manciata di secondi che compongono la sigla di American Horror Story, racconto seriale che si sviluppa come un caotico agglomerato di leggende metropolitane e non, (rac)chiuse in luoghi comuni al cinema di genere.
Serie Antologica poiché ogni stagione presenta trama, ambientazione e personaggi diversi; i quali tuttavia ritornano di continuo, superando le barriere del tempo e della Storia, come reincarnati in versioni alternative delle loro esistenze, fantasmatiche riproposizioni di qualcosa che furono o avrebbero potuto essere. A non mutare sono quei minimi (ma non troppo) tratti specifici che li caratterizza(va)no, che li rende(va)no gemelli cattivi (o più raramente buoni) delle altre loro versioni; corpi attoriali cangianti, camaleontici, che tuttavia celano nelle movenze, negli sguardi e nelle pose, un lascito di ciò che furono e probabilmente saranno. E il Tate (ragazzo psicolabile che ha commesso un massacro nella sua scuola certo di compiere un servizio civico) della Murder House1 viene presentato come “mostro” anche in Asylum e in Coven laddove continua a covare un amore tenero per Violet, sentimento che sovrasta il rimescolo cinematografico; e la figlia problematica della prima stagione appare già nel vestiario e nella placida fisionomia facciale un po’ come una docile strega, ruolo nel quale tornerà nella terza stagione.
Stesso discorso per la vera colonna portante dell’opera tutta, la multiforme Jessica Lange, formidabile interprete dai mille volti, impicciona vicina di casa, suora sadica che reprime impulsi e nasconde sotto la tunica scheletri urlanti, nonché suprema a capo di una piccola congrega di streghe teenager; in ognuna delle incarnazioni è tuttavia possibile riscontrare la sua maledizione di fondo: l’alcol, la lussuria, una passione sfrenata per i sudici bar di periferia abitati da sagome marce, rifiuti di una società distante, irraggiungibile, che ripudia in quarantena i pesi morti (razzismo, antisemitismo, incesto, schiavismo e quant’altro attraversano tutta la creatura di Rayan Murphy e Brad Falchuk).
Sembra dunque che il passato perseguiti ogni personaggio, ma anche ogni luogo: grandissima attenzione è riservata alla scelta delle ambientazioni. La “casa degli omicidi”, situata a Los Angeles e costruita realmente nel 1908 dall’architetto Alfred Rosenheim, è un luogo da sogno/incubo, avvolto da una claustrofobica patina di follia: fin dai primi episodi è chiaro come questo luogo sia stato teatro dei più efferati omicidi della storia, dalla Dalia nera alla strage di Columbine, e gli strascichi di questi orrori echeggiano tra le pareti, al di sotto o al di sopra di esse, nello scantinato, nella soffitta, e ogni singola camera è (stata) spettatrice silenziosa di un qualche abominio; tutta questa energia negativa rafforza le presenze che prendono piede nel reale interagendo con i vivi (?).
Impossibile dunque non ricavare il riferimento metacinematografico forse intrinseco all’intera prima stagione: quel film sulla prepotenza del passato che è Shining, archetipo di un (non) genere, favolosa ibridazione tra l’analisi della follia umana e gli effetti della Storia sui luoghi attraverso il tempo. La Casa, così come l’Overlook, conosce le paure dei suoi abitanti; i suoi fantasmi sono esattamente come «figure in un libro» («basta intimagli di andar via e loro spariranno» dice Tate a Violet; esattamente come consigliava Dick Halloran al piccolo Danny) che inducono in tentazione: e Moira, la governante che appare anziana alle donne e giovane disinibita agli uomini è, per il fedifrago Ben, un po’ come una bottiglia di whiskey per un ex alcolizzato (il che ci ricorda, certo, Jack Torrance). Ognuno è vittima dei propri incubi, non meno i fantasmi stessi, per sempre bloccati in uno spazio-tempo circoscritto, costretti a ripetere meccanicamente gesti e azioni sempre uguali, vestiti sempre allo stesso modo, non tutti consapevoli della propria condizione (Violet si rende conto di essere morta solo quando si vede impossibilitata ad abbandonare la casa). Interessante è proprio questa cura riservata all’analisi psicologica dello spettro (Ben, psicologo di professione, ha in terapia Tate), quasi un’esplorazione antropologica della follia racchiusa nella psiche (dis)umana, ormai tumefatta escrescenza dell’io, scarnificato ed esposto all’altro.
Non troppo lontano si cade nella seconda stagione, Asylum, ambientata nel 1964 in un manicomio del New England, Briardcliff, all’interno del quale tra rapimenti alieni e possessioni demoniache tutti i (veri) mostri sono in realtà umani: il medico del manicomio, il dottor Arden (con un passato da ufficiale nazista), effettua macabri esperimenti sui pazienti, mentre lo psichiatra Oliver Thredson sottopone la lesbica (e per questo rinchiusa) Lana Winters ad una variante della “Cura Ludovico” (altro richiamo kubrickiano) somministrandole una sostanza che induce il vomito mentre scorrono sullo schermo immagini “stimolanti”. Si aggiunge una messa in scena fortemente iconoclasta nella demistificazione dissacratoria del credo, dell’ordinamento religioso (e cattolico), descritto come nido di arrivisti (il Monsignor T. Howard che aspira al papato), lussuriosi repressi (l’ex alcolista suor Judd che indossa intimo rosso sotto la tunica) e posseduti dal demonio (suor Mary Eunice che tanto ricorda una Carrie White divenuta sposa di Dio dopo il massacro al ballo della scuola). E tra lisergiche transverberazioni la morte è un angelo di nero vestito, il suo bacio è la porta tra i due mondi, il traghetto sullo Stige, l’alternativa alla quotidiana sofferenza.
Evidente è finora come siano gli spazi (quelli chiusi, circoscritti) il leitmotiv di congiunzione nell’antologia; gli spazi del terrore, dell’orrore, ma soprattutto dell’immaginario collettivo americano (e non solo); di conseguenza la decisione di rispolverare, per la terza stagione, Coven, la “questione Salem”, risulta una sorta di passo indietro, un’apertura esterna in senso pratico, l’esposizione della messa in scena che restituisce una New Orleans ammaliante, pregna di figure confuse, fors’anche eccessive, nella divagazione sul genere: tra queste, tuttavia, spiccano la perturbante storia tra la suprema, Fiona, e il fascinoso jazzista (redivivo ex omicida seriale), consumata (come solito nei personaggi della Lange) tra bar di periferia e sudice camere d’appartamento; nonché il cumulo di leggende estorte alla mitologia greca: dal minotauro (rivisto in chiave venticativo-lussuriosa) all’edipico autoaccecamento, finanche alla catabasi, la discesa negli inferi, rivisitati come un luogo che è concretizzazione dei propri incubi in una coazione a ripetere infinita, girone dantesco, ultima delirante tappa tra la vita e la morte.
American Horror Story va così spegnendosi tra riprese in soggettiva distorte, efficaci nel restituire un forte senso di disorientamento, quasi una visione compromessa dall’effetto di droghe o vissuta in chiave onirica; il tutto coadiuvato dalla morbosa sigla, la quale fornisce una partecipazione attiva alla visione nel suo sciorinare immagini apparentemente sconnesse che ritornano all’occhio come lampi, raschiando la memoria, ricomponendo un puzzle, il disegno crudele di un reale cinematografico in cui le urla disperate suonano confortanti e l’involuzione alla natura primordiale, bestiale, fa sì che ogni personaggio risplenda di luce propria; perché «la bellezza è l’ultimo velo che cela l’orrore» (Rilke).
Note
1 Murder House, Asylum e Coven sono rispettivamente la prima, seconda e terza stagione della serie. ↑
Filmografia
American Horror Story (Rayan Murphy – Brad Falchuk 2011-in corso)
Shining (Stanley Kubrick 1980)
http://www.youtube.com/watch?v=2c3VVJb562Y