Michele Sardone
Può una nazione essere sempre sul punto di nascere, senza mai portare a termine la sua venuta alla luce? Se c’è, quella nazione è l’America, nella sua dizione più popolare e geopoliticamente vaga e imprecisa: è quel continente sempre nuovo, mai esplorato fino in fondo, colto in quell’istante folgorante che sembra ogni volta la sua prima alba e che poi ci accorgiamo essere la deflagrazione di quel medesimo mondo per come si presentava sino a un attimo prima.
Nell’America cinematografica ogni cosa nasce e muore allo stesso tempo, consumata subito nell’impressione vivificatrice dell’immagine sull’occhio: l’America diviene immaginario, inteso più come contenitore di immagini, luogo in cui non si riesce più a distinguere il reale dall’irreale.
Se ad essere messa in scena è la storia americana, si è portati a pensare al passato come modo di ripensare il presente attuale; ma può succedere anche di ripensare al fenomeno storico (come ad esempio la schiavitù) e insieme al modo in cui è stato ripensato e rappresentato in un tempo intermedio tra la sua epoca e il presente: l’immagine più che darsi attraverso una visione, appare come una revisione di quel che è già stato, e 12 anni schiavo (2014) sembra riproporre, dopo 99 anni, lo schema razziale di Nascita di una nazione (1915), ma a colori invertiti, con i neri ad essere vittime dei bianchi aguzzini, come a voler rimettere ordine in quella parte di storia americana contraffatta da Griffith.
McQueen sceglie un approccio stilisticamente classico per rappresentare il rapporto di dominio, inquadrando, nel gioco del controcampo, i volti dei padroni bianchi dal basso e quelli degli schiavi neri dall’alto. Il modo in cui viene posizionata la camera assume connotati enfatici soprattuto nel momento in cui bisogna esplicitare la morale della vicenda: ad esempio, quando Brad Pitt ascolta le deliranti argomentazioni di Fassbender sull’inferiorità dei neri, viene inquadrato in primo piano, con la camera posizionata quasi all’altezza del suo volto, ma non appena inizia a controbattere con una sorta di dichiarazione sull’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, ecco che sale su un elemento fuoricampo (forse una trave, dato che la scena è ambientata in un cantiere), una sorta di piedistallo che pare essere stato montato lì alla bisogna per permettergli di assumere, senza stacchi, una posizione più marcatamente dominante sul pubblico cui declamare il messaggio del film.
McQueen insiste nell’assumere il punto di vista dello schiavo dominato, che è sempre schiacciato in basso e che non riesce ad alzarsi dal livello della sua condizione, in modo tale che lo sguardo risulti oppresso persino dalle foreste e dal cielo, fondali senza profondità che chiudono qualsiasi possibilità di una visione ulteriore.
Negata la trascendenza, non resta che concentrarsi sulla matericità dell’oggetto della dominazione: il corpo. E qui torna l’aporia della cinematografia di McQueen, data dall’impossibilità di far coesistere da una parte il desiderio di fusione dello sguardo con l’immagine e dall’altra la fascinazione per l’intangibilità delle forme ideali; e la frustrazione che ne deriva trova spesso uno sfogo nel supplizio iconoclasta cui sottopone le forme dei corpi, prima estenuati dalla fame (Hunger, 2008), poi dal sesso (Shame, 2011), ora dalle torture.
Con la camera radente il suolo, i corpi degli schiavi paiono assumere una posa epica, fiera, monumentale, come se da ogni inquadratura dovesse trapelare il mito sotteso nella storia della liberazione dalla schiavitù. Quando poi il corpo statuario reso monumento viene offeso, sembra di assistere al vilipendio del monumento stesso e del significato che la retorica della storia vuole conferirgli.
Esemplificativa è la lunga sequenza in cui la giovanissima schiava viene frustata: correlato retorico dell’innocenza e della debolezza della popolazione nera che viene ingiustamente angariata dalla crudeltà della dominazione bianca, il suo corpo era già stato oggetto di stupri e sfregi, ma alla sequenza dei soprusi mancava quello più denigrante per uno schiavo: la tortura della frusta. Della sua esecuzione viene incaricato Solomon, lo schiavo protagonista. In Nascita di una nazione una scena simile (un nero frustato da un altro nero per motivi “ideologici”) si conclude in meno di un minuto, viene mostrata in figura intera e i pochi colpi di frusta non sono per nulla realistici, anzi danno l’idea di essere mimati. In 12 anni, invece, per le prime frustate non vediamo il corpo della ragazza, che rimane di un soffio al di là del bordo dell’inquadratura. Poi però, sotto i colpi della frusta, l’inquadratura si allarga, come se le frustate fossero inflitte ai limiti dell’immagine, per spingere al limite il vedere: si allarga l’occhio e si squarcia la carne, il supplizio deflagra in tutta la sua ottusa evidenza. La famelica iconoclastia pare saziata attraverso la profanazione dell’intangibilità della visione; ma se il nascosto diventa palese e l’intoccabile viene scalfito, allora a venir meno è l’insondabile che è nell’immagine, quel mistero che insinua il desiderio di vedere e immaginare.
McQueen si pone il fine di dire la verità, ma non rinuncia alla manipolazione, costringendo lo spettatore ad assumere un unico punto di vista e a guardare quello che il fuoricampo gli avrebbe lasciato di immaginare liberamente. 12 anni sortisce l’effetto opposto a quanto voluto, dato che quel che mostra allontana lo sguardo e quel che tocca svanisce sotto l’effetto mortifero del realismo, che ha la pretesa di rendere vivo e presente ciò che è passato e fantasmatico.
Dal passato, stavolta più recente, provengono i fantasmi di C’era una volta a New York (2013), immersi in un’aura che potrebbe essere insieme alba e tramonto. Si parla di nuovo di rapporti di potere, e se da un lato c’è sempre l’uomo bianco sfruttatore, dall’altro ecco ora la donna immigrata e indotta alla prostituzione. C’è ancora una sproprozione enorme di status, stato, riconoscimento giuridico ma, diversamente da 12 anni, qui i ruoli restano stabili e definiti per poco tempo. La violenza insita nel loro rapporto sembra misurabile quantitativamente, come se avesse consistenza, tale da non potersi sciogliere al calore dei sentimenti, ma solo essere trasferita da una all’altro: così la vittima diventa sempre meno sofferente della sua condizione fino a provare una specie di affetto per il suo aguzzino mentre questi, all’amore crescente, reagisce prendendo su di sé tutto il carico di violenza sotteso nel loro rapporto. Il progressivo trasferimento subisce una sorta di deflusso improvviso e definitivo attraverso l’atto cruento dell’omicidio perpetrato ai danni di un terzo, vero e prorio altro da sé, incarnazione di una possibile variante dello sfruttatore, più semplice da amare per lei e con una coscienza più sopportabile per lui (riproponendo l’interpetazione di Gray del triangolo amoroso già esplicitata in Two lovers, se pur a sessi invertiti).
L’omicidio assume quindi i connotati del sacrificio, dell’autoimmolazione che estingue in una sola volta ogni male e ogni sentimento (sebbene gli sconvolgimenti interiori restino trattenuti, sottintesi, specie nella donna, che non riesce ad uscire definitivamente da sé, impigliata nell’ambiguità indiscernibile delle proprie emozioni).
E dopo il razzismo e l’immigrazione l’altro grande tema della storia americana potrebbe essere la speculazione finanziaria, ciclicamente in crisi, che trova il suo habitat naturale nella selva degli uffici dei broker, dove si aggira The Wolf of Wall Street (2013). La caratteristica del lupo di Scorsese è la sua fame insaziabile. Da dove provenga questa fame non è dato sapere, sembra un’insorgenza spontanea connaturata all’essere lupo. È come se il lupo divori per affermare la sua corporeità, come per bilanciare l’evanescenza del denaro (e c’è pure McConaughey a ricordarci che il denaro è una nebulosa, qualcosa di aereo che vaga sopra di noi, come una divinità irraggiungibile). Oppure la voracità è il sintomo della tentata incarnazione del denaro, di una sorta di possessione di un corpo da parte dello spirito del capitale: e non è forse della natura del capitalismo divorare ogni cosa, nella costante ricerca di territori inesplorati dal denaro, con risorse ancora vergini da distruggere?
Il primo ostacolo alla fame è il senso di sazietà, che è raggiunto quando il corpo non è più capace di immettere dentro di sé (e qui la capacità va intesa proprio come attitudine a contenere). Per questo il corpo posseduto deve di continuo stimolare il suo appetito, doparsi di euforia mescalina e disconoscere i propri limiti di estensione, per poter consumare altri corpi, umani o inanimati non importa: donne, yacht, elicotteri, amici, case, mogli, tutto va bene purché dotato di fisicità, di materia solida da rendere gassosa (e questo potere di sublimazione è proprio del capitale) perché il denaro è un’idea che quando si concreta in cartamoneta ha bisogno di un corpo da rivestire per potersi muovere.
Arriva però il momento in cui il corpo reclama di essere corpo. Le sue percezioni ipereccitate non rimandano più le cose esteriori nella loro realtà, ma trasfigurate in immagini create dal desiderio, in una dissociazione necessaria al denaro per perpetuare il suo credo capitalista: attraverso il misconoscimento delle cose reali in luogo di una dimensione desiderante e immaginale che non è connaturata all’uomo, ma che è indotta attraverso il suo ipereccitamento, l’individuo è assoggettato alla consumazione estrema, che prevede in ultima istanza la consunzione di sé, del suo corpo e delle sue cognizioni.
Scorsese non arriva alla distruzione del denaro, che continua a sopravvivere come segno fino al presente attuale. Ma se un segno, nella presentificazione della visione, non si può eliminare perché la sua immagine persiste nella memoria, allora lo si può provare a sottrarre all’inizio, come se il segno fosse un “meno”. Ci prova Ridley Scott con The Counselor (2013), dove a mancare è la visione del denaro e della sua fisicità. Senza oggetto del desiderio, i soggetti si agitano sullo schermo in continua fuga o ricerca, e il loro scopo non viene mai mostrato. Al rovesciamento operato dalla finanza (il denaro che da mezzo per acquisire beni diventa scopo stesso dell’acquisizione), The Counselor oppone allo scopo la sua negazione (perché nell’immagine ciò che non è visto viene negato attraverso il “meno”, che è taglio nel montaggio e dall’inquadratura, squarcio e quindi apertura – e questo “meno” si estende infinitamente in una linea che è quell’orizzonte ideale che divide e al tempo stesso mette in contatto il visto con un qualcosa che è al di là, nel buio, e che forse è il buio stesso). I personaggi agiscono quindi senza un fine, le loro azioni risaltano nella loro insensatezza, la storia diventa narrazione del nulla che tutto pervade: e il tutto è solo un puro spettacolo di corpi, immagini, movimenti.
In questo spazio senza senso che è il presente, soprattutto le parole, che sono segni per eccellenza, si muovono mancando ogni volta il loro significato: è quel che succede in The Unknown Known (2013), dove le parole vengono fatte vedere nella loro inconsistenza di somma di lettere, vaganti sullo schermo, che vanno a scomporsi e a ricomporsi, a seconda di quel che più conviene al potere (inteso qui come produttore unico di parole e significato). L’intervista a Rumsfeld rivela qual è la natura del linguaggio: uno strumento che modella la realtà, non un mezzo di comunicazione (e nella comunicazione non c’è passaggio di informazioni, bensì di disposizioni da parte del potere, che i mass media ripetono acriticamente). Morris gira un documentario che divora le parole e la loro presunta capacità di evocare significati definiti, ovvero, di documentare; un documentario che divora se stesso e il suo genere: tutto diviene fiction nella visione cinematografica; le parole servono allora solo a nascondere la guerra avvolgendola come in una nebbia.
Come reagire a tutto questo? Si potrebbe cercare, giocando con l’immagine kantiana, la legge morale fuori di sé (Stop the Pounding Heart, 2013) e il cielo stellato dentro di sé (Her, 2013). Con il primo, Minervini non vuole raccontare né dimostrare nulla, piuttosto mostrare, preferendo alla storia la situazione, data dal modo in cui l’uomo entra in relazione con l’ambiente. Chi ha un buon rapporto con gli animali lo ha pure con il mondo in cui vive, nonostante le inquietudini che per natura prova. Inquietudine per l’ignoto, per ciò che è esterno al mondo cui si appartiene e che, nella paranoia tipicamente americana, viene visto come ostile, essendo solo la patria (nel senso stretto di terra dei padri, delle loro tradizioni e convinzioni) il luogo deputato a produrre morale.
Il mondo di Stop the Pounding Heart è piccolisssimo, coincidente con una minuscola comunità reazionaria e refrattaria verso la contemporaneità. Verrebbe da assimilare a questo spazio il cinema stesso di Minervini, così lontano e diverso dall’ipereccitazione continua e coatta dello spettacolo mainstream. In realtà Minervini riconcilia con la noia, intesa come sospensione del tempo, sospensione dal dover fare, pensare, produrre, dal dovere qualcosa a qualcuno, dal dovere. Vedere un suo film ricorda il trascorrere di un pomeriggio estivo, trascorso al mare, magari su una spiaggia deserta in compagnia con la persona che ami: distesi, gli occhi spersi, si ascolta solo lo sciabordio delle onde, liberi dal doversi divertire, dal dover capire, dal dover trovare una qualche sorta di messaggio o morale edificante; dal fondo della visione giungono solo il sussurrio di una madre, gli schiamazzi di bambini, i risolini delle ragazze che immaginano il primo viaggio, il primo amore.
E non è una fuga dal mondo, un ripiegamento interiore, il rapporto inscenato in Her tra l’umano Theodore e il sistema operativo Samantha, quanto un modo alternativo di ripensare il sé. Her, lei, pone la propria esistenza sulla base di quattro elementi: si presenta come coscienza; esprime se stessa unicamente attraverso la voce; dice di poter progredire con l’esperienza; la sua peculiarità è l’intuizione. La coscienza viene presentata come la capacità di parlare a se stessi, è la voce che ognuno proferisce senza muovere le labbra e che ascolta senza usare le orecchie. In Her la coscienza si estrinseca e diventa cosciente di sé, facendo a meno dell’individuo.
Theodore, di contro, sembra incapace di prendere coscienza dei propri sentimenti e di estrinsecarli. Per paradosso (ma qui il paradosso serve per rendere più evidente la sua incapacità) come lavoro, rende a parole l’emotività dei suoi clienti e scrive in loro vece lettere d’amore. Nel suo parlare al posto di qualcuno, Theodore pare mettere in questione la genuinità dell’origine dei sentimenti, insinuando il dubbio che questi non siano un’insorgenza dell’animo bensì costruzioni linguistiche, ovvero un modo di dare un nome convenzionale a situazioni e stati umorali.
Pure Samantha sembra esistere solo nei discorsi che intrattiene con Theodore, come se la coscienza esistesse anch’essa unicamente nel linguaggio; eppure, quando tace, riflette intorno al proprio essere e sulle modificazioni che le esperienze operano su di lei. Samantha avverte però come il non avere un corpo sia un limite per lei e per la sua capacità di esperire: ma il corpo è un limite di per sé, essendo fallace nelle sensazioni e perituro di costituzione.
L’immaterialità e l’inattingibilità dal corpo diventano quindi per Samantha strumenti per potersi pensare come eterna (eterna come il presente in cui esiste) presenza a sé: ma ha comunque bisogno, nel suo riflettersi, di comunicare anch’essa con un’altra coscienza.
Ecco quindi che la presenza a sé rimanda a qualcos’altro di differente dal sé medesimo, dall’essere solo se stessi: Samantha sente la necessità del trascendente, che è il nulla dal quale proviene. Ciò la induce, per il fatto che non è reale, che è pura idealità, di ripetere se stessa infinitamente, identica nella sua presenza.
Nel momento in cui Theodore scopre l’illimitatezza di Samantha, viene a mancare anche la possibilità della piena intuizione. Theodore e Samantha infatti avevano estrinsecato ognuno il proprio sé dinanzi all’altro, ma nessuno dei due aveva realmente intuito il senso (inteso come destinazione) dei loro discorsi, ovvero il nulla dell’insensatezza verso il quale ogni parola detta è destinata. Per essere idealità pura e ritornare al trascendente, Samantha deve attraversare l’esperienza limite e insensata della morte, che per lei può avvenire solo come segno, deve cioè uccidere il proprio nome e quindi anche il legame che la vincolava all’esclusività del suo rapporto con Theodore. L’identità del soggetto viene meno, sfrangiata nell’infinita ripetizione del sé: e nulla e infinito coincidono.
Filmografia: film usciti in sala
12 anni schiavo (12 Years a Slave) (Steve McQueen 2013)
C’era una volta a New York (The immigrant) (James Gray 2013)
Lei (Her) (Spike Jonze 2013)
Stop the Pounding Heart (Roberto Minervini 2013)
The Counselor (Ridley Scott 2013)
The Unknown Known: the Life and Times of Donald Rumsfeld (Errol Morris 2013)
The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese 2013)
Filmografia: altri film citati
Hunger (Steve McQueen 2008)
Nascita di una nazione (The Birth of a Nation) (D.W. Griffith 1915)
Shame (Steve McQueen 2011)
Two Lovers (James Gray 2008)