Ida, un film di straordinaria intensità firmato da Pawel Pawlikowski, regista polacco di formazione britannica alla sua quinta prova, racconta dei pochi giorni che separano dalla cerimonia dei voti perpetui la protagonista (l’esordiente, eccezionale Agata Trzebuchowska), una giovanissima professa cresciuta nella severa misticità di un orfanotrofio.

Sono i giorni in cui Ida conosce la sua unica parente, la zia Wanda (l’ottima Agata Kulesza), che, salutandola ironicamente come «suora ebrea», le rivela le sue origini e la tragedia della sua famiglia, vent’anni prima, all’epoca dell’occupazione nazista della Polonia. Wanda, già partigiana ed esponente nel dopoguerra del partito comunista con un ruolo di giudice implacabile (anche nel comminare, a difesa del socialismo, pene di morte), è ormai una donna sola, cupa e del tutto disincantata (si reputa una “puttana”, per i tanti, occasionali uomini delle sue notti): non ha più nessuna fede, tanto meno quella politica. Aiuterà sua nipote nella ricerca del luogo dove sono stati nascosti, nei boschi, i corpi massacrati dei genitori, e anche del suo piccolo Tadeusz (che lei abbandonò e che non fu possibile salvare dalla furia omicida di un avido contadino “cristiano” prima che dei tedeschi). Saranno questo ritorno al dolore irrimarginabile di madre e il disagio esistenziale provocato in lei dall’incontro con il destino comune, ma anche così religiosamente diverso dell’immacolata Ida, a portarla al suicidio (nella sequenza più bella del film).

Nello stesso tempo Ida, quasi a recuperare con un’esperienza sessuale lo spazio dell’astinenza che si era radicalmente imposta come solo innamorata di Cristo, è spinta a saggiare il carnale calore della vita contro il persistente, crudele trionfo della morte, e si abbandona una notte al desiderio, condividendolo con un giovane autostoppista, musicista di jazz, che sogna la vita come un’inebriante avventura d’arte. Salvo, poi, tornare a seguire con intrepida fierezza la voce della sua vocazione, la chiamata di Dio. Ai progetti di una relazione sentimentale destinata a sfociare, com’è la norma, nel matrimonio, nei figli che da esso ci si attende, nella famiglia con i suoi inevitabili problemi, si contrappone il fatto che Ida incalza invano il ragazzo con una domanda (« E poi?... E poi?... E poi?...») su ciò che li aspetta in un futuro forse felice, ma così prevedibile, e dalla prevedibilità reso limitato. A una vita che, ai suoi occhi, non avrebbe senso in mancanza di assoluto, lei preferisce il profondo mistero dell’amore divino, l’assoluto come implicita risposta definitiva.

Il film di Pawlikowski è un bianco e nero rigorosissimo, a schermo ridotto e con una macchina da presa poco mobile (l’operatore è Lukasz Zal). Ne risulta una Polonia dei primi anni Sessanta illustrata senza enfasi e rievocata, tra l’altro, in virtù delle impennate musicali del genio di John Coltrane e del pop italiano dell’epoca: con la malinconia con cui si guarda – lo dice il regista in un’intervista ­– il dimesso effetto antropologico di «uno stato di polizia decrepito e slabbrato». Per questo la resa filmica si pone perfettamente sulla linea della “nuova onda” polacca del cinema di Wajda, Kawalerowicz, Polanski; ed ancor più forte è l’influenza esercitata sul suo nichilismo spirituale dallo stile spoglio e al tempo stesso sublime di Robert Bresson, sebbene i lunghi silenzi, gli espressivi rapporti figure/volumi, i significativi spazi prospettici, consentano di ricordare – altra impronta d’epoca – anche il nostro poeta dell’incomunicabilità, Michelangelo Antonioni.


Filmografia

Ida (Pawel Pawlikowski 2013)