ritorno a casaAnni Sessanta. Teddy, divenuto professore universitario, torna dall’America, dopo nove anni, nella casa londinese, un universo proletario maschile in cui vivono il padre, due fratelli e lo zio; la madre è morta anni prima. L’uomo arriva di notte, con la moglie, una donna che i familiari non conoscono. Non ha avvertito nessuno.


È un’intrusione, figura tipica del teatro di Harold Pinter, a creare tensione e a determinare il confronto-scontro tra i personaggi. Questi ultimi, come sempre nell’autore, non si autodefiniscono, ciò che sono emerge, per frammenti, dalle conversazioni: la loro identificazione è dunque parziale, interpretabile, dubitabile. L’unica certezza, nel teatro di Pinter, infatti, risiede nell’azione scenica: in questo senso, sulla pagina scritta, i suoi drammi sono l’esatto contrario di quelli di Arthur Miller (tanto per richiamarsi a un autore contemporaneo che mi pare porsi agli antipodi dell’inglese). Se l’americano didascalizza puntigliosamente, descrivendo nel dettaglio condizioni e stati d’animo dei caratteri, informando il lettore anche dei loro pensieri, secondo una logica che è quasi romanzesca, Pinter aggiunge poco o nulla al dialogo (le famose pause, i silenzi), il mondo che va a rappresentare costituisce un mistero anche per lui: tutto accade in diretta, per così dire, senza schemi predeterminati.
Nonostante l’autore sia uno dei più rappresentati degli ultimi decenni sui palcoscenici di tutto il mondo, mettere in scena Pinter, dunque, non è affatto semplice, proprio perché i suoi drammi sono rebus in cui non si ha idea delle motivazioni dei personaggi, si ha certezza solo dei loro comportamenti esteriori, ponendosi, il suo teatro, in un ambito in cui il presente non è mai autoevidente e il passato è sempre ipotetico, creato (alla lettera) dalle parole dei personaggi che lo rievocano e della cui attendibilità non si ha alcuna certezza. In esse e nei loro interstizi si celano segni da decifrare, nella comunicazione opaca tra i personaggi è sì possibile scorgere delle figure, ma mai definirle nel dettaglio.  
Del primo allestimento di The Homecoming, capolavoro della piena maturità, portato in scena da Peter Hall nel 1965 ‒ Peter Stein assistette alla storica prima, rimanendone profondamente impressionato ‒  rimane una traccia cinematografica (un adattamento fedelissimo, diretto dallo stesso Hall, sceneggiato dall’autore e che schierava la composizione originale, con Ian Holm nella parte di Lenny e Vivien Merchant, prima moglie di Pinter, nel ruolo di Ruth. «Non c’è mai stata un’altra Ruth come Vivien» (Gussow 1995, p. 108), una versione “autentica” che, consacrata in questo documento filmato, per molti versi vincola il testo.

Al centro de Il ritorno a casa vi è l’evolversi di una dinamica familiare che appare imperscrutabile: i personaggi mutano schizofrenicamente di segno, oscillano tra l’incarnazione di un modello di famiglia canonico e riconoscibile (le derive nostalgiche, persino affettuose dell’uno o dell’altro, che suonano a volte come un puro riflesso condizionato a uniformarsi a un modello, a tacite, civili regole di convivenza) e l’oscuro manifestarsi di una natura ‒ in opposizione ‒ cinica, di slanci deformati dal bieco interesse, di un’attitudine violenta, aggressiva, che si traduce in scontri incrociati: Len contro il padre, il padre contro lo zio, Len contro Teddy. Lo scontro tra i due fratelli, in particolare, mette in evidenza un’altra costante del teatro pinteriano: l’osservazione delle classi sociali nelle loro differenze, differenze che si traducono in linguaggi e comportamenti dissonanti e in conseguenti, ulteriori difficoltà di comunicazione tra  i personaggi (lo status raggiunto da Teddy, suonando come un riscatto dalle condizioni di origine, è vissuto da Len come un affronto e quindi oltraggiato e deriso in molteplici modi). Così i residenti nella casa, alternano a scaramucce, litigi e insulti anche sotterranee possibilità di accordi, alleanze, scambi di favori, mentre Teddy e Ruth, che hanno fatto irruzione nel microcosmo selvaggio, sono ambigui termini di una coppia che ora appare unita, ora si dimostra distante: l’uomo è possessivo, ma anche stranamente accondiscendente alla possibilità che la moglie rimanga nella casa e si prostituisca; la moglie, che sembrerebbe madre amorevole preoccupata dei figli lontani, non è intimorita dagli attacchi che le vengono riservati, non esita a sedurre, sfodera un carattere da arida calcolatrice, quando si tratta di dettare le regole dell’accordo economico con i suoi congiunti-protettori.  
In The Homecoming ‒ in cui la famiglia è un nido di vipere dove coabitano potenziali stupratori, meretrici, sfruttatori, violenti, maschilisti, in cui dominano manovre di avvicinamento e circuizione reciproca, in una  strenua, tacita lotta di affermazione di potere sul territorio circoscritto della magione ‒ i ritorni di cui si parla sono potenzialmente tre: il primo, all’inizio, quello di Teddy nella casa di origine; il secondo nel prefinale, quello di Teddy alla casa americana; il terzo, quello più sottile, ma il più importante, quello nella casa della femmina-madre Ruth che, assunte le vesti della prostituta, si presta a reinterpretare, a vantaggio dei figli-cognati, il collaudato copione edipico su cui quella Famiglia ha da sempre recitato la sua consunta commedia: di qui l’arrendevolezza di Teddy di fronte alla ricostruzione del vecchio nucleo, composto attorno alla Donna, centro del quadretto, dominatrice finale (l’immagine su cui si chiude il dramma).

La pièce si muove tra gli ambigui elementi, tra commedia e dramma, in una sordida atmosfera resa da Stein con toni calibratissimi: in questo senso la messa in scena del regista prevede un’aderenza al testo cristallina, non impone forzose letture (si pensi al recente, orientato allestimento di Bondy del medesimo testo) ed esalta la tendenza di Pinter a mettere in brutale evidenza, in modo repentino e improvviso, singoli dettagli, situazioni inspiegate, a disturbare lo spettatore lanciandogli contro una realtà che appare come un poliedro dalle infinite sfaccettature di cui è impossibile una visione d’insieme. Stein, con registro realistico, esalta la tendenza del testo a non offrire soluzioni, o, meglio, a offrirne di continuo lasciando chi guarda alla ricerca frustrata di un significato univoco. Il regista, grazie a un complesso di attori magnifico, asseconda molto bene l’oscillante vaghezza del testo pinteriano tra sospensione delle ipotesi e una loro improvvisa riapertura, con un allestimento essenziale, in cui i colori della scenografia e un uso strategico delle luci ibernano spesso i personaggi in quadri stilizzati, in cui parole e fatti sembrano divaricarsi di continuo. Così la partitura di Stein, inizialmente giocata su caratterizzazioni forti (si veda il personaggio di Len nel primo atto), si stempera gradualmente, lasciando tutto lo spazio e l’espressività alla parola, culminando in una seconda parte di violenza verbale inusitata, uno dei passaggi più tesi e potenti del teatro contemporaneo.
È un adattamento molto fedele (che sarebbe piaciuto a Pinter, che detestava il teatro anarchico e le interpretazioni creative) e quindi molto efficace, che porta il regista a magnificare il testo, non abbagliandolo mai, ma definendone i contorni e esaltandone i chiaroscuri.


Bibliografia

Gussow M. (1995): Conversazioni con Pinter, Ubulibri, Roma 1995.




Titolo:
Il ritorno a casa

Regia: Peter Stein

Sceneggiatura: Harold Pinter
Traduzione: Alessandra Serra
Attori: Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna
Produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Festival dei 2Mondi di Spoleto del 2013

Visto al Teatro Carignano