Cosmopolis5«C’è abbastanza dolore per tutti, adesso» (Cosmopolis)

Rispetto al film Cosmopolis (2012) di David  Cronenberg il fattore cruciale della poetica di Don DeLillo, autore dell’omonimo romanzo (2003) da cui la pellicola è tratta, è dato dalla drammatica percezione del protagonista del racconto, e del testo in generale, della bolla del tempo, che, oggettiva e confermata essenzialmente dalla tecnologia più avanzata, spiazza ogni tradizionale contestualità esistenziale dell’uomo nel passaggio al nuovo millennio.

 


Sembra opportuna, allora, a riassumerla, questa citazione da una recensione al saggio di Mauro Dorato, Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune: «Non esiste un “presente” nell’Universo e la storia delle cose non è separabile in passato, presente e futuro. L’idea di un “presente” esteso nello spazio è un’approssimazione, legata alla lentezza della nostra capacità mentale di risolvere tempi brevi (decimi di secondo), se paragonata ai tempi (nano-secondi, al più milli-secondi) che impiega la luce a percorrere le distanze nelle quali ci muoviamo abitualmente. Il nostro presente è una piccola bolla approssimativa, limitata nello spazio, e se cerchiamo di estenderlo troviamo contraddizioni insormontabili. La metafisica del presente, cioè l’idea che la realtà esiste tutta nel presente, non è sostenibile, perché fa leva su un errore: estendere il nostro presente locale a distanze arbitrarie» (Rovelli, 2013).

Allora il romanzo, secondo un’ossessione superomistica e ad un tempo autopunitiva di un destino segnato dall’essere-per-la-morte, è una discesa agli inferi di una metropoli (New York) sfrenatamente postmoderna del protagonista Eric Packer, un geniale giovane miliardario della Borsa, travolto da una tempesta finanziaria perfetta e dal crollo a catena delle banche mentre è impegnato in una frenetica speculazione sullo yen. Del resto, a esemplificativo riscontro della particolare declinazione del sistema del tempo in Cosmopolis di DeLillo, ecco qualche rapido flash del libro nel cielo corrusco dell’esperienza: «Ci sono stelle morte che brillano ancora perché la loro luce è intrappolata nel tempo. Dove mi trovo io in questa luce, che a rigor di termini non esiste?». (DeLillo 2012, p. 134); «Le cose che facevano di lui quello che era, non si potevano certo identificare e tanto meno convertire in dati, le cose che vivevano e vagavano dentro il suo corpo, dappertutto, a casaccio turbolente, miliardi di miliardi, nei neuroni e nei peptidi, nella palpitante vena della tempia, nell’incostanza del suo libidinoso intelletto» (ivi, p. 178); «Si pensa che il mondo sia qualcosa di autosufficiente. Ma nulla è autosufficiente. Ogni cosa fa parte di qualcos’altro. I miei piccoli giorni si riversano negli anni luce» (ivi, p. 53); «Il corpo bruciato venne coperto e portato via su una barella, in posizione semieretta, con i topi per strada e la pioggia che cominciava a cadere e la luce che cambiava radicalmente in quel modo soprannaturale che è affatto naturale, ovviamente, perché tutta la premonizione elettrica che vaga per il cielo è un dramma concepito dall’uomo» (ivi, p. 89). Fanno loro eco: l’aspetto dinamico del processo della vita nel flusso di una vertiginosa, infinita contabilità elettronica degli scambi di valori economici planetari («Guardò oltre Chin, verso flussi di numeri che scorrevano in direzioni opposte. Capì quanto significasse per lui, il movimento di dati su uno schermo. Esaminò i diagrammi figurativi che si rifacevano a modelli organici, ala d’uccello e conchiglia spiraliforme. Era pura superficialità affermare che numeri e grafici fossero la fredda compressione di turbolente energie umane, desideri e sudate notturne, ridotti a lucide unità sui mercati finanziari. In realtà i dati stessi erano pieni di calore e passione, un aspetto dinamico del processo della vita. Quella era l’eloquenza di alfabeti e sistemi numerici ora pienamente realizzata in forma elettronica, nel sistema binario del mondo, l’imperativo digitale che definiva ogni respiro dei miliardi di esseri viventi del pianeta. Lì c’era il palpito della biosfera. I nostri corpi e oceani erano lì, integri e riconoscibili», ivi, p. 23); o la radiografia del muscolo cuore di Eric («Quale mistero scorgeva in quel muscolo funzionale. Sentiva la passione del corpo, la sua spinta all’adattamento attraverso le ere geologiche, la poesia e chimica delle sue origini nella polvere di vecchie esplosioni stellari. Come si sentiva piccolo in confronto al proprio cuore. Eccola lì, a incutergli timore, l’immagine digitalizzata della vita sotto il suo sterno che pulsava con forza al di fuori di lui», ivi p. 40).

Non è una stroncatura affermare che nella puntuale sceneggiatura del film di Cronenberg non c’è (e non poteva esserci: il regista canadese non è Malick né Lynch) un’ immediata rappresentazione di questi parametri di lettura della bolla del tempo. La traccia è solo intensamente indiretta: il trascendentale, che da Kant va alla relatività di Einstein, è tutto nelle immagini del realismo (pochi  movimenti della mdp e molti controcampi nei dialoghi, per lo più chiusi all’interno di una spropositata limousine), e nel montaggio di cupa secchezza che le connota con la fotografia (di Peter Suschitzsky) e la colonna sonora (di Howard Shore), essenzialissime.

Nel film, il racconto delle "stazioni" dell’avvicinamento al compiersi della giornata-incubo di Eric, che, dietro una sempre più attendibile, annunciata "minaccia", attraversa la città inverosimilmente intasata dal traffico impazzito, da folle manifestanti di rivoltosi o dal funerale di un popolarissimo rapper, per recarsi semplicemente da un barbiere all’altro capo di essa, segue dal suo canto perfettamente la parabola del testo; e le ellissi e alcuni tagli ancorché importanti non toccano la centralità delle performance sessuali del protagonista, che reclamano, come di solito accade in Cronenberg, attraverso i corpi e loro ottusi desideri, la risposta all’enigma della vita. Del resto, a proposito di tagli (forse di semplificazione) operati dal regista (come uno degli assassini, riportati in diretta dall’onnipresente TV, di un magnate della finanza internazionale) non trova spazio l’ultimo incontro – però risolutivo, i due fanno finalmente l’amore – di Eric con la moglie Elise, ai margini di un "si gira" di un film con un centinaio di comparse promiscuamente nude che si adagiano sul selciato di un quartiere della cupa notte newyorkese. E, nel romanzo, anche le pagine – bellissime – di suspense prima dell’incontro di Eric con il suo stalker, tratte, con una scrittura tutta d’un fiato (un culmine, diremmo, joyciano del tracciato narrativo), dai prototipi cinematografici del noir, non sfuggono alla piatta verisimiglianza con cui si annuncia, nei bui corridoi di un palazzo disabitato, la lunga sequenza del decisivo dialogo conclusivo. Impossibile, infine, il paragone tra i finali delle due opere: all’ultimo istante di DeLillo, prefissato, nel tempo relativizzato sul quadrante dell’orologio da polso di Eric dalla telecamera che vi è incorporata, prima dell’arrivo dello sparo – questa è la cognizione delle cose che surclassa la loro percezione –, nel film si sostituisce – semplice, ma agghiacciante – l’improvvisa sparizione delle immagini, annullate in un lampo di secondo da uno schermo ormai sordo e spento.

D’altronde il tempo – nell’era del disastro globale – è narrato, come dice DeLillo, solo dal denaro, e la vita e la morte degli uomini è equiparata solo a quella di topi di fogna: un grande topo in polistirolo, immaginato sarcasticamente come estrema e degradata unità di misura escogitata dopo la polverizzazione valutaria, è non a caso il totem repellente di masse che percepiscono e osteggiano il capitalismo come uno spettro (Marx rovesciato). In ambedue le opere, intanto, giustamente indecifrabile e gratuita, è l’uccisione di Torval, la guardia del "corpo" ammazzato non involontariamente dal suo padrone Eric alcuni momenti prima che la "minaccia" prenda consistenza, mentre la "prostata asimmetrica" diagnosticata al giovane resta come un’incisiva ma anodina metafora, per un ipersessuato, della sua squilibrata e colpevole, eccessivamente egoistica, idea del mondo. Nella rincorsa verso l’eccellenza della tragica dimensione poetica del romanzo, ne guadagna la capacità artistica di Cronenberg, corroborata dalla diafana icona (vampiresca) di Robert Pattinson (Eric) – dal dramma del suo personaggio resa funzionalmente astratta –, e dall’interpretazione dell’ottimo Paul Giamatti (nei panni di Richard Sheets, che nel romanzo si nasconde in due passaggi, come io narrante alternativo, dietro lo pseudonimo di Benno Levin).

In conclusione una penetrante sintesi sono le ultime parole dello scrittore americano: «Questa non è la fine. Lui è morto dentro il cristallo dell’orologio, ma è ancora vivo nello spazio originario, in attesa che risuoni lo sparo» (ivi, p. 180).


Bibliografia:

DeLillo D. (2012): Cosmopolis, Einaudi, Torino.

Dorato M. (2013): Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune, Carocci, Roma.

Rovelli C. (16 giugno 2013): La filosofia che chiarisce la fisica, in «Il sole 24 ore».


Filmografia

Cosmopolis (David Cronenberg 2012)