Matteo Boscarol1

oshima«The Man Who Left His Will on Film è il sottotitolo del mio film A Secret Post War Tokyo Story2. Questo sottotitolo illustra l’intero contenuto del film. Un giorno, lo scorso autunno fui posseduto dalla visione di un uomo che lascia le sue volontà in un film. Le mie visioni sono sempre cinematografiche ed il film fu concepito in questo modo.
Di tanto in tanto mi viene chiesto da dove provengono tali idee, ma è assolutamente impossibile rispondere a questa domanda. Appaiono improvvisamente nella mia testa, in alcuni giorni, in certi momenti. È come se sentissi la voce di un’apparizione e posso dire con certezza che sono un artista solo in virtù di queste apparizioni e delle loro voci. Coloro che le vedono e le sentono come me diventano il mio staff ed il mio pubblico» Ōshima Nagisa (1970)

 

Tōkyō sensō sengo hiwa (The Man Who Left His Will On Film, 1970) è probabilmente, assieme a Shinjuku dorobō nikki (Diary of a Shinjuku Thief, 1969) il lavoro più formalmente sperimentale realizzato da Ōshima Nagisa durante la sua lunga carriera. Il film nasce in un periodo molto delicato della storia (anche cinematografica) del Giappone moderno, in un periodo in cui le energie investite nelle rivolte degli anni precedenti cominciano a fiaccarsi e a prendere altre direzioni. Naturalmente anche il cinema, che di queste energie rappresenta una delle manifestazioni artistiche più forti ed impattanti, cambia o sta per cambiare le sue prerogative, da una cinematografia direttamente legata alle proteste e che si fa agente attivo della rivolta (anche estetica) si giunge, così come nelle lotte per la "strada", a forme di "rivolta" più indirette ed interiori. Vale la pena qui ricordare alcuni eventi che simbolicamente o meno esemplificano la frattura e gli slittamenti nella cinematografia e nella società nipponica di quegli anni. Nella prima metà dei Settanta Adachi Masao dal cinema sperimentale e pink si trasferisce in Medio Oriente per supportare materialmente la Rivoluzione del popolo palestinese. Ritornerà in patria, agli arresti, solo nel 2001. Nel 1973 esce Sanrizuka: Heta buraku (Sanrizuka: Heta Village) documentario della Ogawa Production che, pur continuando a raccontare la resistenza dei contadini (e dei giovani studenti) contro la costruzione del nuovo aeroporto di Narita, sposta l’attenzione filmica dalle lotte e dagli scontri verso la vita e le tradizioni contadine degli abitanti del posto. Questo cambiamento di rotta porterà il collettivo documentaristico a spostarsi nel Nord del Giappone a Yamagata e a vivere in simbiosi con una comunità rurale per quasi vent’anni, esperimento che darà vita ad una serie di epocali lavori fra cui svetta per concezione e complessità d’intenti 1000-nen kizami no hidokei: Maginomura monogatari (Magino Village a Tale, 1986). Inoltre nel 1973 gli avvenimenti del cosiddetto Asama-sansō jiken, con lo scontro fra alcuni membri del gruppo armato della Nihon sekigun (L’Armata Rossa giapponese) e la polizia, sanciscono la chiusura autolesionistica di certa parte dei movimenti ed il loro spostamento verso percorsi dove la violenza diviene l’unica soluzione.

Questa breve diversione ci dice come il flusso rivoluzionario più o meno compatto che aveva attraversato massivamente la fine dei Sessanta giapponesi, si balcanizzi in una molteplicità di rivoli ed espressioni e finisca nello scontrarsi inevitabilmente con le contraddizioni scaturite al suo interno. In questo senso, The Man Who Left His Will on Film contiene in nuce, come tutte le grandi opere d’arte, molte delle problematiche e delle potenzialità che date queste premesse si svilupperanno durante i Settanta e ci offre degli spunti per riflettere sul significato ed il destino del concetto di rivolta in generale.
Come in molti dei suoi lavori del periodo anche qui Ōshima, più che dare un marchio autoriale e molto personale al film (alla Kurosawa tanto per intenderci) si fa piuttosto canale e cassa di risonanza per le energie e le personalità attive in quegli anni. Facendo come regista un passo indietro ed avvalendosi di attori non professionisti riesce cioè a donare spazio alle idee ed alle istanze degli altri, in questo caso i due sceneggiatori Hara Masato e Sasaki Mamoru delle cui riflessioni The Man Who Left His Will on Film è il frutto.

Il film si apre con Motoki, giovane membro di un gruppo radicale che si impossessa della macchina da presa usata ed abbandonata da un suo compagno con cui aveva avuto una discussione pochi secondi prima e che si è poi suicidato gettandosi da un palazzo. La discussione con il fantomatico ragazzo, che noi non vediamo mai essendo quasi sempre dietro alla videocamera, verteva sul fatto di usare la Bolex come arma rivoluzionaria per riprendere le lotte in strada. Presa la videocamera Motoki scappa dalla polizia che però gliela confisca, a questo punto è lui a inseguire la polizia entrando in un tunnel, ma improvvisamente si sveglia in un letto dove gli raccontano di essere rimasto contuso negli scontri. All’interno della videocamera il girato (d’ora in avanti FNF, film nel film) si rivela essere composto solamente di paesaggi metropolitani apparentemente privi di significato. È questo il testamento impresso su pellicola del ragazzo? Ma questo ragazzo è esistito davvero? Questi e altri quesiti non verranno mai esplicitamente risolti nel corso del film, l’atmosfera d’indecidibilità che permea la pellicola e di cui essa si compone le sono consustanziali. Questa natura fondamentalmente aperta dell’opera, se in prima battuta disorienta, in un secondo momento ed in un modo molto efficace, prevenendo la cattura dello spettatore da parte della continuità narrativa, riesce a lasciare campo aperto alla potenza delle immagini e del loro libero combinarsi. La narrazione/non narrazione polisemica che non risolve il mistero del plot ma che al contrario lo complica sempre di più senza rivelare alla fine niente che non sia ambiguo, lascia spazio ad un’esperienza filmico/visiva in qualche modo diversa, che fa riferimento esteticamente ad una combinazione fra l’esperienza aurorale degli actuality film, riguardo specialmente al FNF, e quella della sperimentazione per la struttura circolare del lavoro.

Data quest’ultima caratteristica del film, partire dal centro nella nostra analisi non sarà troppo fuori luogo allora, usando come inizio e porta d’entrata una delle scene più importanti, i cui significati si riverberano a raggiera lungo tutto lo spazio della pellicola. La scena si svolge dopo il ritrovamento del FNF, Motoki e quella che sembra essere la sua ragazza decidono di vederne il contenuto e cominciano così a proiettarlo nel loro appartamento, la giovane si spoglia e le immagini del paesaggio anonimo metropolitano vengono proiettate sul suo corpo. In una società, quella post-industriale avanzata, dominata dall’ossessione per la vista e per l’atto del vedere, e che proprio in quegli anni entrava in una nuova e più acuta fase, il paesaggio/immagine diviene per l’individuo una sorta di nuovo corpo, una nuova carne e vestizione che sostituisce quella vecchia. Il corpo nudo della ragazza fasciato ed irradiato dalla luce del film, le immagini/paesaggio che quasi la fecondano sono un atto sessuale che simbolicamente rimanda alla nascita di un nuovo periodo storico, ad uno nuovo essere del soggetto e ad un nuovo farsi della soggettività in unione con il paesaggio e le sue immagini. Irrompe così nel tessuto del film, un’irruzione postuma che agisce anche retroattivamente sull’opera, l’immagine/paesaggio e quella che è la sua conseguenza concettuale, il fûkeiron ovvero la Teoria del paesaggio. È questo uno dei concetti teorico/politici scaturiti dal cinema giapponese più interessanti e meno considerati in Occidente (ma del resto anche nello stesso Giappone) che siano scaturiti dal fermento culturale di fine anni Sessanta. Così lo descrive uno dei suoi fautori, il già citato Adachi Masao:

Tutti i paesaggi che si vedono nella vita quotidiana, anche quelli di posti magnifici che appaiono sulle cartoline, sono essenzialmente legati alla figura di un potere dominante. Questo era il punto di partenza di tutte le nostre discussioni sulla teoria del Paesaggio.3

Alcuni dei film che hanno danno corpo a questo paradigma sono, oltre al lavoro che stiamo qui trattando, A.K.A. Serial Killer (1969) proprio di Adachi Masao, The Red Army/PFLP: Declaration of World War (Adachi – Wakamatsu 1971), The First Emperor (1973) di Hara Masato, Okinawan Dream Show (1974) di Takamine Gō, ma anche i più recenti Self and Others (2001) e Memories of Nagano (2004) del documentarista Satō Makoto. Ognuno di questi lavori però porta una concezione diversa del paesaggio, dell’immagine/paesaggio e delle sue declinazioni, in comune c’è solo una costruzione poetica ed espressiva dell’opera che gira attorno a questi concetti.

L’attenzione verso il paesaggio incrocia in The Man Who Left His Will on Film un’altra tematica importante che costituisce in qualche modo la base e l’impalcatura su cui l’opera si sviluppa, il fallimento e l’implosione del movimento politico di rivolta che aveva infiammato le piazze e la società nipponica negli anni precedenti. Questi movimenti non sono in grado di mutare la propria attività e prassi filosofica/rivoluzionaria da un obiettivo unico pienamente visibile e riconoscibile verso una costellazione di poteri dispersi, multipli e all’opera dovunque4. Uno dei fallimenti di queste proteste è proprio quello di non saper cogliere al tempo questo passaggio, mutando di conseguenza forme e tattiche di resistenza. La critica che Ōshima ed i suoi collaboratori fanno ai movimenti è palese soprattutto nelle scene in cui il collettivo depreca e giudica uno spreco di pellicola il girato del FNF, oppure quando i ragazzi guardano il filmato di una manifestazione (che noi spettatori significativamente non vediamo) mentre Motoki le ignora completamente continuando a pulire le lenti della "sua" macchina da presa. La cura solitaria che il ragazzo rivolge alla sua macchina da presa quasi prefigura il passaggio da un’arte collettiva ed impegnata direttamente nel sociale5 ad una che si rivolge maggiormente verso l’interno e la propria individualità.

Motoki non è attivo come dovrebbe all’interno del collettivo; indolente e non realmente convinto di ciò che fa, tutta l’attenzione che riversa verso il FNF viene ritenuta inutile e priva di significato, solo una serie di paesaggi dove non è rappresentato ciò che conta secondo il gruppo, cioè la lotta e lo scontro diretto. In questo senso The Man Who Left His Will on Film è un film "epocale", che critica l’atteggiamento politico/artistico di un determinato periodo, il suo girare a vuoto su se stesso6; allo stesso tempo inaugura un possibile nuovo modo di "abitare" il mondo, una possibilità espressiva che passa necessariamente attraverso la critica del paesaggio, certamente luogo di opacità e omogeneizzazione delle società post-industriali, ma al cui interno giace anche una potenza di liberazione. È questo il senso della guerra del e al paesaggio che i due giovani protagonisti cercano di attuare seguendo le orme del FNF e dei luoghi in esso rappresentati. La banalità, l’in-significanza apparente di questo girato è il tempo lasciato finalmente a se stesso e liberato dalle costrizioni spaziali di un paesaggio che è continuamente imposto e creato dalla società e dagli occhi dei suoi individui.

L’uso dell’immagine/paesaggio portata alle sue estreme conseguenze crea così uno scarto ed uno slittamento nei confronti dell’uniformità visiva e percettiva dominante, capovolgimento e insieme rivolta estetica. I pochi secondi di strada capovolta nella scena in cui la ragazza viene violentata in una macchina in corsa, non possono che ricondurre all’oscillare ipnotico in La Région centrale (1971) di Michael Snow e al suo parossistico insistere su un tempo che è proprio dell’immagine/paesaggio7, a discapito di uno spazio e di un tempo costruito dall’uomo e dal suo sguardo, anche quando questo paesaggio è naturale. In questa immagine/paesaggio che va oltre il paesaggio, lo supera e lo buca, il soggetto umano che del paesaggio è una derivazione, perde allora importanza e centralità, ma l’uomo non è naturalmente assente, nella parte del FNF in cui la Bolex fissa uno scorcio di strada ed un piccolo negozio per esempio, i passanti si vedono benissimo. Anche il girato del FNF che sembrerebbe esprimere il personale al massimo grado, con la videocamera a mano ed i suoi bruschi movimenti a strappi durante la corsa in cui il ragazzo è inseguito dalla polizia, dovrebbe accentuare il punto di vista individuale e la sensazione da parte dello spettatore che dietro alla Bolex ci sia una persona. Ma l’impersonalità dei paesaggi-qualunque del FNF invece dissipa l’individuo per liberarlo nell’immagine/paesaggio, in questo senso va letta la scena iniziale/finale in cui il ragazzo salta nel vuoto e "si suicida" lasciando in eredità al mondo la Bolex con il suo contenuto. Il movimento che era iniziato nell’impegno sociale e politico e proseguito verso l’interno dell’individualità, si libera parzialmente di quest’ultima sfociando nell’esterno del paesaggio/immagine, scoprendo così l’inizio di un nuovo possibile percorso.


Note

1. Questo breve scritto deve molto al lavoro svolto da ‎Furuhata Yuriko, specialmente in Returning to actuality: fūkeiron and the landscape film da cui molti spunti sono mutuati e successivamente rielaborati, questa almeno è la mia speranza, in modo originale.
2. Il titolo nell’originale giapponese è infatti Tokyo sensō sengo hiwa.
3. Da http://www.midnighteye.com/interviews/masao-adachi/
4. «non c’è, eppure è dappertutto» è una frase che viene detta dalla ragazza durante il film.
5. Gli esempi più clamorosi di questa tendenza sono le epopee nell’arte documentaria di Tsuchimoto Noriaki ed i suoi numerosi film sull’avvelenamento da mercurio di Minamata e quella della Ogawa Pro, prima in piazza a filmare le proteste giovanili a fine anni Sessanta e poi a sostegno dei contadini di Sanrizuka che lottavano contro la costruzione dell’aeroporto di Narita. (United Red Army, 2007) di Wakamatsu Kōji.
6. La brutalità di questo "suicidio" e le colpe per questo girare a vuoto sono espresse con assoluta lucidità e brutalità in Jitsuroku Rengo Sekigun: Asama sanso e no michi.
7. Questo insistere su un tempo altro lo si incontra anche, se non soprattutto, in Wavelength (1967), sempre dello stesso autore. ↑


Bibliografia

Furuhata Y. (2007): Returning to Actuality: Fūkeiron and the Landscape Film, in «Screen», XLVIII, autunno, 3, pp. 345-62.


Filmografia

A.K.A. Serial Killer (Ryakushô renzoku shasatsuma) (Adachi Masao 1969)

La Région centrale (Michael Snow 1971)

Magino Village a Tale (1000-nen kizami no hidokei: Maginomura monogatari) (Shinsuke Ogawa, 1987)

Memories of Nagano (Satō Makoto 2004)

Okinawan Dream Show (Takamine Gō 1974)

Sanrizuka: Heta Village (Sanrizuka: Heta buraku) (Adachi Masao 1973)

Self and Others (Satō Makoto 2001)

The First Emperor (Hara Masato 1973) 

The Red Army/PFLP: Declaration of World War (Adachi Masao – Wakamatsu Kōji 1971)

United Red Army (Jitsuroku Rengo Sekigun: Asama sanso e no michi) (Wakamatsu Kōji 2007)

Wavelength (Michael Snow 1967)


Sitografia

http://www.midnighteye.com/interviews/masao-adachi/