Grazia Ingravalle

the man beneath 1In occasione del primo anniversario della nuova sede del Netherlands Film Institute – l’EYE, il nuovo futuristico museo del cinema di Amsterdam – l’archivio cinematografico decide di riportare alla luce uno dei tesori perduti di Sessue Hayakawa. Sì, letteralmente riportare alla luce, poiché attraverso la proiezione cinematografica fa rivivere ancora una volta, nell’incontro con lo spettatore della epoca odierna, The Man Beneath (William Worthington 1919). Questo film, come accade a tanti capolavori dell’epoca muta, era scomparso dalla circolazione, sino al 2005, quando accidentalmente riemerge tra la polvere dell’archivio olandese.


E in una fredda e soleggiata domenica di primavera, lo spettatore attraversa in traghetto il fiume IJ e si approssima al tempio del “cinema espanso”, l’EYE, l’edificio a forma di occhio che tutto vede e tutto fa vedere, adagiato sulla sponda più prominente del fiume a nord della città. Avvicinandosi all’entrata, si alternano scorci del prospetto laterale della costruzione dalle dimensioni e dai volumi imponderabili, progettata dalla firma austriaca Delugan Meissl. Al termine della lunga scalinata, l’ingresso non può che essere trionfale e lo spettatore viene ingurgitato irrimediabilmente nel ventre dell’EYE. Qui si aprono una maestosa vetrata ed un incantevole grandangolo sull’acqua e sui quartieri occidentali della città. È la pupilla dell’EYE, un panopticon alla rovescia, uno spazio ed un tempo della visione totale che anticipano le meravigliose immagini cinematografiche.
In un’incantata sospensione dal tempo e dal vivere quotidiano, lo spettatore si appresta ad entrare nella sala 1, dove lo attende il cinema concert. Ed è lì sulla scalinata in quercia, dopo un rapido sguardo ancora all’orizzonte urbano sagomato dalla stazione e dagli alti edifici a ovest, che prova ad immaginare quanto dovesse essere diverso un secolo fa andare al cinematografo o al music hall a vedere un film muto e a sentire la musica che ne accompagnava le immagini eloquenti. È come afferma Eric de Kuyper:

«[Il cinema delle origini ed il cinema muto] parlano una lingua diversa dal cinema che il pubblico conosce e ama. […] Senza dubbio, lo spiccato carattere sentimentale, il manicheismo dei comportamenti e la pronunciata teatralità sono ben lontani dai nostri parametri estetici. In breve, questo cinema non è giunto sino all’epoca moderna» (De Kuyper 2011, p. 57)1.

Martin de Ruiter, il bandoneonista compositore della nuova colonna sonora, introduce The Man Beneath. Il pubblico viene progressivamente condotto a familiarizzare con quest’opera muta attraverso il rimando ad un altro film molto più recente, Il ponte sul fiume Kwai (David Lean 1957), che valse a Sessue Hayakawa una nomination all’Oscar per il ruolo del colonnello Saito. In un incedere diacronico a ritroso, finalmente i contorni della figura dell’attore leggendario si fanno più netti. Martin de Ruiter infatti rivela che prima ancora di Rodolfo Valentino, Hollywood era il regno di un altro divo sex symbol, una figura esotica e affascinante, elegante e sobria che aveva stregato con i suoi tratti asiatici il pubblico femminile americano. Questi era il giapponese Kintaro Hayakawa, in arte Sessue Hayakawa. The Man Beneath, insieme a His Birthright (William Worthington 1918) e a The Courageus Coward (William Worthington 1919), anch’essi ritrovati nel 2005, fu uno dei film prodotti dalla casa fondata dallo stesso Hayakawa, la Haworth Pictures Corporation.
Ad accompagnare il film una piccola orchestra di tre violini, viola, violoncello, contrabasso, arpa, vibrafono, marimba e bandoneon. La sala è immersa nel buio, solo una luce tenue illumina gli spartiti. Accanto al leggio, Martin de Ruiter, compositore e direttore d’orchestra, segue la traccia narrativa del film su uno schermo LCD. La proiezione inizia. Come da un’epoca lontana appaiono le immagini imbibite di giallo. I segni del tempo hanno devastato la pellicola che alterna graffi verticali e bulbi neri, accompagnati da una marcata instabilità di fondo di tutto il quadro.
Vediamo la casa della famiglia Erskine in Scozia. I cartelli con i titoli di questa copia distribuita in Olanda sono fregiati col nome «Cinema Palace», forse dal cinema che al tempo aveva proiettato la pellicola. Dalle didascalie apprendiamo che la famiglia Erskine sta festeggiando i successi accademici dell’amico e collega, il dott. Ashuter. In rassegna compaiono i protagonisti della vicenda: le sorelle Erskine, Kate (Helene Jerome Eddy) e Mary (Pauline Curley), James Bassett (Jack Gilbert), fidanzato di Mary e studente al college del dott. Ashuter (Sessue Hayakawa). Quest’ultimo è un medico indiano, la cui sapienza è lodata in tutto il mondo. Sin dall’iniziale dipanarsi della storia intuiamo quello che è il centro attorno al quale si svilupperanno gli eventi narrati, quando la cameriera candidamente esclama: «E pensare che è solo un Hindu!»2.

Nonostante la sua “superiorità” morale – sarà lui infatti a metter in salvo l’amico Bassett dalla setta della Mano Nera –, nonostante il suo stile, la sua bellezza – su cui indugia generosa la macchina da presa – e il suo acume, Ashuter è l’uomo al di sotto, appunto the man beneath. Egli si vede negare da Kate il compimento del loro amore. Ella dichiara: «Le mie labbra non possono proferirlo, ma la mia anima anela a te». Il loro è infatti un amore inconcepibile, socialmente inaccettabile, a causa delle barriere razziali che li dividono irrimediabilmente, al di là di ogni possibile virtù.
Kate e Ashuter si salutano al chiarore della luna nell’esotico giardino immerso in tinte blu della villa dove questi ha ricevuto gli onori per i meriti accademici, prima di ritornare in India. E quando egli afferma, all’apice del lirismo di questo dramma: «Torno da coloro che mi chiamano dal deserto… Pensando all’amore per te, che offrirò come incenso sull’altare dell’amicizia!», ecco che il dispositivo narrativo si inceppa, la distanza storica irrompe bruscamente ed il pubblico esplode in una fragorosa risata. La complicità – quell’accordo tacito alla base del gioco della finzione filmica – tra lo spettatore nel 2013 e lo spettacolo filmico di questo dramma d’amore del 1919, si allenta fino a spezzarsi. Le parole affidate al pathos muto di Hayakawa non appaiono più verosimili ai nostri occhi, abituati oggi a tutt’altra prosaicità, e il registro lirico si frantuma cedendo il passo all’effetto comico.
Eppure, in un veloce alternarsi di distanza e aderenza al testo filmico, veniamo nuovamente assorbiti dagli occhi scintillanti di nitrato di Hayakawa, quando, in un primo piano di fronte allo specchio, egli tenta di strapparsi la pelle del viso, si sfregia e ne maledice il colore: «Oh, dio dei miei padri! Abbi pietà di tuo figlio. Guarda, questo sangue che scorre è rosso.. rosso.. L’amore supererà ogni ostacolo». In questo primo piano ci perdiamo completamente e, certo, non è un caso che sia stato proprio il viso magnetico di Hayakawa ad ispirare Louis Delluc nell’elaborazione del concetto di fotogenia. Tornano alla mente le parole di Jean Epstein (2002, p. 29) quando scriveva nelle pagine di «Grossissement»:

«Il primo piano modifica il dramma grazie all’impressione di prossimità. Il dolore è a portata di mano. Se allungo il braccio ti tocco, intimità. Conto le ciglia di quella sofferenza. Potrei sentire il gusto delle sue lacrime. Nessun viso si era avvicinato tanto al mio. Mi incalza da vicino e sono io che lo inseguo faccia a faccia. Non è neanche vero che tra di noi ci sia dell’aria: lo mangio. E’ in me come un sacramento. Acuità visiva massima» (Epstein 2002, p. 29).

Per comprendere a fondo il dramma di The Man Beneath dovremmo tentare un sguardo alle vicende dello stesso Sessue Hayakawa e al suo travolgente successo dopo aver interpretato in The Cheat (Cecil B. DeMille 1915) il villain suadente e dominante, che dopo aver sedotto una donna bianca la marchia a fuoco con un simbolo di potere giapponese. In questo film Hayakawa incarnava l’ambigua convivenza di timore e fascinazione suscitate dall’esotismo del “pericolo giallo”, in un periodo storico in cui non solo vi era una diffusa preoccupazione per un’imminente invasione imperialistica giapponese, ma in cui la segregazione razziale e il divieto per i matrimoni misti erano visti con generale favore. Nei film successivi prodotti dalla Haworth, i ruoli interpretati da Hayakawa mutano radicalmente. I suoi personaggi aderiranno al mito rassicurante dell’All American, espiando nell’auto-sacrificio per l’amore della donna bianca – come nel caso di Ashuter che salva la famiglia di Kate – il “peccato originale” della differenza razziale3. Ironicamente, le vicissitudini attraversate dalla pellicola di The Man Beneath nei quasi cento anni dal suo ritrovamento, sembrano aver immortalato in quella che è ora una copia incompleta del film questa frustrazione del desiderio e questa negazione del lieto fine. Infatti, sul più bello, proprio nel momento in cui Kate e Ashuter si ricongiungono, la pellicola già pesantemente compromessa si interrompe scomparendo nel buio della sala e lasciando il pubblico nel silenzio. Non sapremo mai se il bacio ci fu o no.

Possiamo fare del nostro meglio per provare a calarci nell’atmosfera del cinema muto. A volte ci sembra che il suo linguaggio, quello lirico dei primi piani, attraversi le epoche imponendosi prepotentemente a noi con la sua universalità. Eppure è solo attraverso le mediazioni del tempo – della temporalità diversa a cui apparteniamo – che entriamo in contatto con il cinema muto. Lo spettatore scopre The Man Beneath, in quanto testo filmico e bene culturale, in un sistema di diversi piani di significazione. La cornice di questa esperienza filmica è, infatti, tutta del nostro tempo: un’architettura aerodinamica, uno spazio urbano dalle linee minimali, il contesto istituzionale celebrativo, l’intermedialità della performance del cinema concert, la storia della sopravvivenza sino ad oggi di questa copia del film, ed infine gli schemi interpretativi del pubblico contemporaneo. Non possiamo annullare questa distanza temporale. Come afferma Gadamer, essa è l’unico punto di partenza possibile per conoscere ed interpretare un testo storico.


Note

1. Traduzione dal testo in inglese mia.
2. La traduzione delle didascalie dall’olandese all’inglese è stata gentilmente fornita da Elif Rongen-Kaynakçi, specialista per la collezione muta dell’EYE Film Institute. La traduzione dall’inglese all’italiano è mia.
3. Per un approfondimento del contesto storico della produzione dei film della Haworth rimandiamo al Catalogo delle Giornate del Cinema Muto, 32^ Ed. 2008, 185-192.


Bibliografia

De Kuyper E. (2011): Silent Films in Their First Decades – Objects for Research or for Exhibition? Early, in Loiperdinger M. (a cura di): Cinema Today: The Art of Programming and Live Performance, New Barnet: John Libbey Publishing Ltd.

Epstein J. (2002): Bonjour Cinéma, in Pasquali V. (a cura di): L’essenza del cinema: scritti sulla settima arte, Fondazione scuola nazionale di cinema, Roma.


Filmografia

His Birthright (William Worthington 1918)

Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on the River Kwai) (David Lean 1957)

The Cheat (Cecil B. DeMille 1915)

The Courageus Coward (William Worthington 1919)

The Man Beneath (William Worthington, 1919)


Sitografia

http://www.cinetecadelfriuli.org/gcm/ed_precedenti/edizione2008/Catalogo2008.pdf

http://www.designboom.com/architecture/delugan-meissl-eye-film-institute/