Andrea Bruni

roger-480x270«La macchina da scrivere è la nostra penna. Ma anche quando questa penna è tenuta da un artista, pochi sono in grado di leggere quello che essa scrive, perché la sua storia deve essere letta istantaneamente, al contrario del libro, che si può leggere e rileggere finchè non si è capito. La scrittura impressa sullo schermo non conosce indugi». (Josef Von Sternberg)



In un “mar delle tenebre” ove, come meduse fosforescenti e pericolosissime, fluttuano orde di scribacchini dispettosi, di improvvisati Soloni, di sagaci censori che sanno pure quando Nicolas Winding Refn va dal parrucchiere a tosarsi ma pensano che Hans Richter sia un attaccante del Monaco, è possibile innamorarsi di una penna? A me è successo una decina di anni fa, leggendo un articolo di Roger Ebert, ove il Nostro ci racconta, non senza entusiamo, di quando conobbe il temibile Reanimator (1985) di Stuart Gordon: «Una delle esperienze più deprimenti che possano capitare è un brutto film che non abbia il coraggio delle proprie azioni. Al contrario, uno dei piaceri del cinema è scovare una pellicola appartenente ad un genere “poco raccomandabile” che cerchi, con tutte le sue forze, di uscire dalle maglie del genere suddetto, per innalzarsi allo stato dell’arte, non si sa bene quale, ma con i vessilli dell’eccentricità. Reanimator è una goduria di questo tipo, un horror sinceramente gory, dotato di uno stile e di un senso del ritmo che balza subito agli occhi. Ciò che gli dona linfa vitale è la tensione fra il desiderio del regista di fare un buon film e la sua consapevolezza che i film con medici pazzi e morti ambulanti ben di rado lo siano. La tentazione è quella dell’approccio “camp”, un po’ sulla falsariga del Morrissey di Blood for Dracula, ma Gordon resiste a questa tentazione e crea una livida, sanguinaria, piece da Grand Guignol nel Teatro dei Non-morti. Ho visto questo film al Festival di Cannes; mi ci sono avvicinato senza nessuna aspettativa, se non con la recondita speranza che fosse migliore dei presuntuosissimi film che mi toccava vedere nella sezione ufficiale. Uscii notevolmente sorpreso, e rinvigorito (anzi, no, “rianimato”) da questo film che aveva un pubblico che lo seguiva battendo i piedi e urlando come fosse allo stadio. Nel suo modo, corrotto e bizzarro, questo film funzionava al pari (se non meglio) delle pellicole del Festival». Non lo trovate commovente? Alla luce poi della sua recente scomparsa, dopo 15 anni di calvario, tutto in Ebert, nato al cinema a braccetto di quel geniale terrorista di Russ Meyer (la sceneggiatura di Beyond the Valley of the Dolls è sua), è commovente.

In primis, i suoi ri-pensamenti all’insegna, quasi, del pentimento. Il “caso Lynch” è quanto mai esplicativo: Ebert ha sempre diffidato di Lynch, dei suoi fumismi estetizzanti (quanto mai emblematica la frase: «Vedere Strade Perdute è come baciarsi in uno specchio: ti piace quello che vedi, ma è inevitabile provar una sensazione di freddo»), sino all’“epifania” di Mulholland Drive: «David Lynch ha impostato la propria carriera per giungere a Mulholland Drive, ed ora che vi è giunto gli perdoniamo tutto…Finalmente un suo esperimento che non si frantuma come una provetta. Il suo ultimo film è una cavalcata surrealista mascherata da Noir Hollywoodiano, e più ciò che vediamo sembra perdere “senso”, più diventa impossibile staccare gli occhi dallo schermo…». Impagabile Ebert, maestro di leggerezza, sorridente e rubizzo Sancho Panza della penna cinefila, che mai, mai, ha perso la scintilla dell’entusiasmo, vero motore di ogni “magnifica ossessione”. Un amour fou che lo ha portato sovente ad innamorarsi di pellicole scentrate, orgogliosamente eccentriche: Santa Sangre di Jodorowsky («Un film come mai avevo visto. Santa Sangre è un’opera in cui le più remote stanze dell’Es vengono spogliate e messe a nudo»), Songs from the second floor di Roy Andersson («Amo questo film perché il Nuovo incarnato: parte da un punto in cui nessun altro film ha mai osato cominciare, procede implacabile per dimostrare la ferrea logica della propria disperazione, per poi approdare nelle lande del puro nichilismo. Incredibile il magazzino iconico evocato: Bosch, Tati, Kafka, Beckett… È un Bergman in chiave slapstick, dice J. Hoberman sul Village Voice: certo, ma anche una tragedia greca scritta da Groucho Marx…»), Dracula: pages from a virgin’s diary di Guy Maddin («Al pari di tutte le sue immersioni nel passato, Dracula non è che un eccitante invito a vedere i film con lo stesso occhio di Maddin: puro, virginale.»). E, come si suol dire, scusate se è poco…


Filmografia

Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!! (Blood for Dracula) (Paul Morrissey 1974)

Dracula: Pages from a Virgin’s Diary (Guy Maddin 2002)

Lungo la valle delle bambole (Beyond the Valley of the Dolls) (Russ Meyer 1970)

Mulholland Drive (David Lynch 2001)

Reanimator (Stuart Gordon 1985)

Santa Sangre (Alejandro Jodorowsky 1989)

Songs from the Second Floor (Sånger från andra våningen) (Roy Andersson 2000)

Strade Perdute (Lost Highway) (David Lynch 1997)