Sergio Arecco

notte e nebbia«In questo testo chiamo shot quello che, negli studi in cui si girano film drammatici, si chiama comunemente cut. In breve, definirei shot “un frammento filmico girato in continuum”. […] In un unico shot, in ogni shot, si deve percepire, grazie al metodo usato dall’autore, il suo temperamento e la sua coscienza del reale. Nel mio ultimo film, Notte e nebbia del Giappone, ci sono solamente quarantatré shots. Vale a dire, in linea di massima, one scene one shot. […] Far durare il piano con una camera che si muove il più liberamente possibile costituisce uno dei miei princìpi tecnici di fondo (il metodo consente inoltre la raffigurazione esaustiva di una scena; una volta, il metodo giusto era considerato quello di tagliare una scena in corso; oggi, quando s’inizia a raffigurare una scena, è bene girarla senza interruzione fino alla fine): sono princìpi stimolati dal flusso di coscienza, dalla soggettività, poiché al flusso di coscienza, alla soggettività dell’autore è affidato il compito di svolgere una funzione critica. Ogni piano deve essere critico. Uno shot deve comportare non solo la critica dell’autore nei confronti dell’oggetto filmato, ma anche l’autocritica dell’autore stesso» (Ôshima in Le pape 1980, pp. 50-52, trad. mia).


Mi scuso per la lunga citazione, ma mi pare talmente decisiva sia per illuminare la tecnica di Notte e nebbia del Giappone, l’opera chiave – e non solo del primo periodo – di Ôshima Nagisa, sia per comprendere l’estetica dell’intero suo cinema, che ho pensato ne valesse la pena. Il testo risale al 1960, giusto l’anno di Notte e nebbia del Giappone, e si conclude in maniera non meno decisiva con il seguente enunciato programmatico: «Solo le opere in cui ogni shot contiene un flusso critico dello stessa natura di quello che attraversa l’opera nel suo complesso, solo queste opere, meritano il nome di cinema» (ibidem).

Notte e nebbia del Giappone è il primo film “militante” di Ôshima, girato a caldo nell’autunno 1960, a ridosso del fallimento della rivolta di giugno contro la ratifica parlamentare del Trattato nippo-americano (Anpo Tôsô), il quale, di fatto, sancisce la subordinazione militare del Giappone agli Stati Uniti, concedendo loro l’installazione su territorio giapponese di potenti basi strategiche. E traccia un bilancio spietato degli errori della sinistra giapponese, condivisi tanto dalla Zengakuren, l’ala trotzkista del movimento studentesco degli anni Cinquanta, quanto dal Partito comunista. Nucleo problematico di fondo: il matrimonio tra Nozawa, giornalista esponente della Zengakuren, e Reiko, esponente del nuovo movimento giovanile. I presenti alla cerimonia, vecchi e nuovi militanti, sembrano provare qualche motivo di compiacimento, leggendovi una sorta di riconciliazione tra le due generazioni. Si tratta però di un alibi. Nozawa, negli anni Cinquanta, si schierò con i duri del Partito comunista, tradendo così i propri ideali e alleandosi con il dogmatico Nakayama, il quale non solo gli rubò la fidanzata Misako, ma esercitò su di lui un’influenza nefasta. I nodi del passato riaffiorano attraverso una serie di flashback riferiti a ciascun partecipante alla cerimonia e, nonostante l’accanita volontà di chiarimento da parte di tutti, non vengono sciolti. Il motivo? Le contrastanti versioni dei testimoni, la cui esperienza trascorsa, apparentemente rimossa, si ripercuote inesorabilmente sulla condotta attuale. Nozawa sembra cercare l’amore di Reiko per ritrovare con lei una verginità perduta. Reiko si aspetta da lui un atteggiamento meno disincantato e più partecipe alla sorte dei compagni in lotta. Misako nutre un feroce risentimento nei confronti di Nakayama. E costui vorrebbe far tacere tutto e tutti abbandonandosi a un isterico comizio finale, coperto, manco a farlo apposta, da un frastuono assordante che ne copre e rende inudibili le parole.

Poco fa ho usato l’aggettivo “militante”, inevitabile per qualificare in via preliminare un film che si pone come «un tentativo di critica rivoluzionaria del movimento rivoluzionario». Tuttavia, per il modo in cui Ôshima fa recitare, adottando un registro del tutto astratto e formalizzato, uno psicodramma collettivo ancora in corso, va detto che, se abbiamo a che fare con un film politico, abbiamo a che fare più con un film di fantasmi ideologici che di dialettica eversiva. È vero che, realizzando il suo quarto film, Ôshima esorcizza quel che ancora restava, nella sua “trilogia della gioventù” (Il quartiere dell’amore e della speranza, Racconto crudele della giovinezza, Il cimitero del sole, 1959-1960), dello stile taiyôzoku (“banda del sole”, etichetta che designa la Nûberû Bagû, la Nouvelle Vague giapponese, interessata al ritratto di una generazione di giovani amorali e indifferenti ai valori tradizionali): vale a dire i residui di un atteggiamento – malgrado tutto accettabile per una major conservatrice, ma economicamente tentata dal modernismo come la Shôchiku – di comprensione delle inquietudini giovanili, sospese tra rabbia e desiderio, marginalità e idealismo. Ma è anche vero che Notte e nebbia del Giappone è, al netto della messa in scena del conflitto politico, un’altra elegia della giovinezza stroncata, in questo caso dai custodi del dogma (i padri, offerti in sacrificio), nelle sue struggenti aspirazioni all’amore e alla libertà. Il film, a suo modo, non fa che rappresentare una sorta di rito d’espiazione per tutte le violenze e i ricatti – ideologici e morali – inflitti dalle istituzioni alla generazione del dopoguerra, condotta alla pazzia per essere stata a più riprese tradita e umiliata. Al punto che la cinepresa, elettasi a tramite privilegiato di tali pulsioni negate, “impazzisce” con lei e per lei, nel tentativo di inseguirne e ricucirne il passato e il presente. Il tutto in sintonia con la nozione oshimiana dell’assimilazione sempre traumatica del flusso dell’immaginario al flusso di coscienza, tanto liberatorio quanto inarginabile.

Si può dunque parlare di una sostanziale continuità? Di contenuti, assolutamente sì. Di forme, assolutamente no. La vera e propria zona eletta da Ôshima a teatro delle pulsioni non è soltanto abitata da figure spettrali (simulacri del passato come del presente). Non è soltanto percorsa da un vento di follia e di coazione a ripetere. È innanzitutto, metacinematograficamente, un set unico e immodificabile come un’unità aristotelica. Noël Burch (1979, p. 329) ha parlato, non a caso, di un theatrical sign inglobante passato e presente in un continuum senza tempo specifico, ossia senza un tempo che non sia il tempo della pura rappresentazione: tempo, aggiungiamo noi, scandito appunto dagli shots, dagli stacchi di montaggio, gli appena quarantatré shots, o quarantaquattro, secondo la più precisa numerazione di Adriano Aprà (cfr. Francia di Celle, 2009, pp. 113-23) che intervallano un film composto pertanto da appena quarantaquattro piani-sequenza (o quarantacinque, secondo Ôshima). La cinepresa, nella sua cattura di volti e discorsi in spasmodica tensione, ondeggia altrettanto spasmodicamente aggiungendo frenesia a frenesia, esacerbazione a esacerbazione, frattura a frattura; e insieme, grazie al piano-sequenza, ristruttura il destrutturato, riarticola frammenti e colma interstizi. Tanto che alla fine ci restituisce un teorema, politico ed estetico insieme, elaboratissimo e calibratissimo in ogni sua parte.

A trent’anni di distanza c’è stato chi ha subordinato il dispositivo estetico del piano-sequenza di Notte e nebbia del Giappone a un’esigenza meramente pratica (Hasumi Shigehiko in Müller – Tomasi 1990, pp. 40-41). Ôshima, secondo Hasumi, critico esperto dei modi di produzione delle major, sentendosi prevedibilmente contestato dalla (quanto mai cauta) Shôchiku per l’arditezza ideologica del suo film, e vedendosi provocatoriamente assegnare solo dieci giorni per portarlo a termine – trascorsi i quali lo studio, a detta del patron Kido Shirô, sarebbe stato indisponibile –, dovette fare di necessità virtù e adottare a fortiori la tecnica del piano-sequenza, per risparmiare tempo e condensare il più possibile il piano di lavorazione. Anche accettando la versione di uno studioso esperto dei modi di produzione giapponesi come Hasumi, noi tendiamo comunque a considerarla più un’ipotesi che una testimonianza inconfutabile: diciamo un’opinione suggerita dalla conoscenza dei fatti e tra l’altro espressa in termini lusinghieri per l’abilità sperimentale manifestata da Ôshima nel fronteggiare una situazione d’emergenza.

Ôshima farà della tecnica dello shot una cifra espressiva talmente consolidata e talmente radicata ab origine nel suo modo “implosivo” di concepire la forma cinematografica (Il quartiere dell’amore e della speranza è già disseminato di shots alternati a lunghe pause, per non parlare di Racconto crudele della giovinezza, il cui nervosissimo montaggio di documentazione e di fiction affronta già il tema delle manifestazioni studentesche contro il Trattato), che non esitiamo a convenire che l’abbia assunta, dilatandone i tempi, quale soluzione tattica a un problema contingente come quello comportato dalla lavorazione in tempi stretti di Notte e nebbia del Giappone. Ma, nello stesso tempo, non esistiamo a pensare l’opposto: che quella dilatazione fosse già nei programmi, nell’idea originaria di tradurre teatralmente, quindi con una ritualità e una concentrazione peraltro assolutamente giapponese dei ritmi e delle cadenze, la formula, come direbbe Derrida, del jeu e del je, del gioco scenico e dell’io (shutai, termine del giapponese moderno del tutto inesistente nel vocabolario “classico”) che lo governa.

Perché Hasumi, nel suo dire e non dire, punta in realtà molto più in alto. Sottintende che nell’ossessivo movimento circolare di una cinepresa che inquadra frontalmente o lateralmente le figure recitanti si nasconda un non-movimento o un falso movimento. In altre parole, i lunghi piani-sequenza finirebbero per paralizzare gli interpreti in posture da manichino, paralizzandone al tempo stesso l’azione risoluta, sostituita da un fiume di parole prive di effetto concreto. La recita del passato e del presente vorticherebbe insomma attorno a un punto cieco, a un asse senza centro. Si avviterebbe su se stessa e non procederebbe, nel senso che non produrrebbe, nel movimento inteso come movimento politico, alcun movimento inteso come evoluzione verso un radicale mutamento dell’esistente. L’avanguardia irrimediabilmente sconfitta si guarderebbe in qualche modo allo specchio e si autoaccuserebbe, si autocompiangerebbe, si autovittimizzerebbe (lo dice anche Burch), restando in balìa del suo stesso narcisismo e della sua stessa impotenza progettuale. Ôshima, con straordinario istinto mimetico, ne metterebbe impietosamente a fuoco il velleitarismo, ma, optando per la mimesi, non andrebbe oltre neppure lui, come invece dovrebbe fare un vero rivoluzionario.

Ed ecco trovato il punto debole dell’argomentazione, pur serratissima, di Hasumi. Ôshima, secondo me, fa l’unica rivoluzione che, nel suo caso, va fatta: quella con la macchina da presa. Non spetta a lui, cineasta, fare l’altra rivoluzione, quella delle armi. Né spetta a lui indicare quali siano e dove siano le armi materiali. L’unica arma che Ôshima conosce è la cinepresa, con le sue potenzialità visionarie e le sue prospezioni allegoriche. Se ne disconoscesse virtualità e competenze, non farebbe che tradire il proprio ruolo per trasformarsi in un brigatista settario, proprio lui che invece guarda con sospetto alla setta della Zengakuren come a qualunque altra setta – organizzazione, quella della setta, così tipica e così prolifica, fino ai tempi attuali, dello spirito giapponese. A Ôshima preme fare il suo mestiere, e farlo fino in fondo, anche compromettendosi e sporcandosi le mani in mezzo al tumulto e allo strazio personale. Fino a vedere Notte e nebbia del Giappone – la classificazione N.N. (Nacht und Nebel), veniva impressa, nei campi di sterminio nazisti, sulla divisa dei deportati – ritirato dalla programmazione dopo soli quattro giorni, per volontà della stessa allarmatissima Shôchiku (allarmatissima anche per il contemporaneo assassinio del segretario del Partito socialista). Una major specializzata in film sentimentali o in shomin-geki alla Ozu (il suo regista principe) che si fa raggirare da un regista geniale sì, ma d’assalto e si scopre involontariamente complice di un’operazione ad alto rischio come quella di piazzare nelle sale cinematografiche di Tôkyo una vera e propria bomba a orologeria come il film-manifesto in questione? Non sia mai! Piuttosto licenziare Ôshima, o indurlo a licenziarsi (che è lo stesso), bollare come colpevole una simile estremizzazione del taiyôzoku eiga e della Shôchiku Nûberu Bâgu e chiudere per sempre le porte a esperienze troppo innovative. Provvedimenti invero salvifici per un autore sui generis come Ôshima, il quale, dopo una fase di sbandamento (coincidente con i pur interessanti L’addomesticamento, da un racconto di Ôe Kenzaburô, girato per la Palace, e Amakusa Shirô Tokisada, un jidai-geki girato per la Tôei), fonda finalmente una propria casa di produzione, la Sôzôcha (Compagnia di creazione), diventa indipendente e, con il già incandescente Il godimento (1965), si proietta nei cieli di carta di un Giappone cinematograficamente mai visto.


P.S.: è di prossima pubblicazione un e-book scritto dallo stesso Sergio Arecco su Ôshima, versione ampliata dell'omonimo volumetto Castoro Cinema del 1979.


Bibliografia

Aprà A. (1972): Quaderno informativo n. 41, Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, Pesaro.

Burch N. (1979): To the Distant Observer, University of California Press, Berkeley/Los Angeles.

Francia di Celle S. (a cura di) (2009): "Notte e nebbia del Giappone": Ôshima e il piano-sequenza, catalogo Nagisa Ôshima, Il Castoro, Milano.

Le Pape J.-P. (a cura di) (1980): Écrits 1956-1978. Dissolution et jaillissement, Cahiers du Cinéma / Gallimard, Paris (ed. or. Kaitai to funshatsu. Ôshima Nagisa hyrôn shu [Distruzione ed eruzione. Raccolta di scritti critici di Ôshima Nagisa], Haga shoten, Tôkyo 1974).

Müller M. – Tomasi D. (a cura di) (1990): Racconti crudeli di gioventù. Nuovo cinema giapponese degli anni 60, EDT, Torino.


Filmografia delle opere citate di Ôshima Nagisa

Il quartiere dell’amore e della speranza (Ai to kibo no machi 1959)

Racconto crudele della giovinezza (Seishun zankoku monogatari 1960)

Il cimitero del sole (Taiyo no hakaba 1960)

Notte e nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri 1960)

L’addomesticamento (Shiiku 1961)

Amakusa Shirô Tokisada (1962)

Il godimento (Etsuraku 1965)