Vito Attolini
L’inquadratura iniziale riprende dal basso le gambe di una donna che, mentre sta vestendosi dinanzi allo specchio (e, malizioso dettaglio per gli anni in cui fu girata, a un certo punto si infila le mutandine), si muove al ritmo di un charleston: il suo dimenarsi è l’esatto opposto dell’armoniosa compostezza di una danzatrice, la cui immagine apre il film. La donna è Diana Medford, una esuberante ragazza appartenente a una ricca famiglia dell’alta borghesia ed è interpretata da Joan Crawford, un’attrice che nel 1928 – anno in cui fu girato Our Dancing Daughters diretto da Harry Beaumont, di cui ci occupiamo ora – non era ancora la star che sarebbe diventata subito dopo la presentazione del film, il cui straordinario successo fu confermato anche da due successive pellicole affini. L’attrice diventò una delle più ammirate dive dello schermo, dopo una precedente, poco brillante carriera, che comprendeva una dozzina di film, non tutti da ricordare (ma uno di questi, il migliore, The unknown, fu diretto dall’eccentrico Tod Browning, e deve molto alla straordinaria interpretazione di Lon Chaney).
Our Dancing Daughters uscì quando il sonoro era stato da poco introdotto, e ciò spiega la tecnica mista con cui fu realizzato, con una netta prevalenza del muto, interrotto da rarissimi quanto appena accennati interventi parlati. In effetti si tratta di un film che sembra quasi reclamare il sonoro, essendo pieno di sequenze di musica e di rumori, ai quali provvide in parte la postsincronizzazione, processo cui si faceva ricorso in alcuni casi sul finire degli anni Venti, prima del definitivo assestarsi del sonoro (il motivo musicale conduttore del film è Ain’t We Got Fun di Richard Whiting e Egan-Kahn, copyright 1921).
Per la Crawford si trattò di una sorta di spartiacque fra il primo, breve capitolo e il secondo, di gran lunga più ampio, di una carriera che pure conobbe periodi di parziale eclissi (veleno per il botteghino, si disse più tardi dell’attrice, dopo l’insuccesso di qualche suo film), dal cui cono d’ombra uscì vincente, puntando sulle risorse di un talento fuori del comune e di una fotogenia di eccezionale singolarità, per riproporsi in una nuova versione che le assicurò un rinnovato successo (si pensi a Il romanzo di Mildred, e a Che fine ha fatto Baby Jane?, che segnarono i suoi trionfali ritorni sullo schermo).
Pur coi suoi evidenti limiti di carattere artistico Our Dancing Daughters ha una qualità senza dubbio rilevante, che legittima l’attenzione che gli si riserva, legata al suo essere espressione diretta di una particolare temperie culturale, quella degli anni Venti, che lo caratterizza e che gli conferisce l’inconfondibile sapore di un’epoca oggetto di mitizzazione, ma anche motivo di ispirazione di opere letterarie di grande rilievo: basti pensare a quelle di Francis Scott Fitzgerald, che possiamo considerare quasi il deus absconditus del film di Harry Beaumont (si parva licet…).
Non a caso si fa il nome del grande scrittore, se si pensa a ciò che scrisse dell’attrice:
«Joan Crawford è senza dubbio il miglior esempio di ragazza emancipata e anticonformista (flapper), la ragazza che vedi nei night club alla moda, vestita con la massima raffinatezza, trastullarsi con un bicchiere pieno di ghiaccio con un’espressione distante e vagamente malinconica, ballare deliziosamente e ridere di continuo con occhi grandi “feriti”: giovani creature che hanno talento per la vita».
Col film di Beaumont infatti siamo nel pieno dell’età del jazz, dei roaming twenties, ebbri di vita, di cui le pagine di alcuni narratori ci hanno restituito intatto l’inconfondibile sapore, lo straordinario fascino. Anni che sono rimasti nell’immaginario comune, non soltanto letterario: ne fu espressione genuina anche l’ambiente cinematografico, con le vite “inimitabili” di alcuni suoi protagonisti, che riempirono le cronache mondane con i resoconti della loro scandalosa condotta e talora di oscuri e non di rado insoluti delitti in cui furono coinvolti: ce ne riferisce Kenneth Anger (1987, 2000), cineasta scrittore, nei due volumi su Hollywood Babilonia, dove ne passa in rassegna alcuni fra i più clamorosi.
Il film di Beaumont è uno dei resoconti più vistosi anche se poco approfonditi di quel clima sovreccitato, sintonizzato felicemente sulla sensibilità e sulla recitazione dell’attrice che ne è l’interprete principale, il personaggio su cui si indirizza l’attenzione dello spettatore nonostante la presenza di altre due co-protagoniste (le attrici Anita Page e Dorothy Sebastian) che hanno un ruolo poco meno rilevato del suo.
Our Dancing Daughters è la conferma di quanto il divismo nell’età dello studio system (ma non solo) fosse non già qualcosa di superficialmente effimero, ma uno strumento particolarmente funzionale alla definizione di pattern culturali egemoni nella società del tempo, di cui alcuni film, come quello di Beaumont, nonché alcune star, erano espressione. A tal proposito è il caso di menzionare altre attrici-simbolo dell’età del jazz, come Clara Bow (Cosetta di Clarence Badger) o Colleen Moore (Il mio cuore aveva ragione di Alfred Santell), interpreti ideali di questo tipo di film. Pertanto è lecito prendere spunto da queste considerazioni per accennare ai motivi centrali del film di Harry Beaumont.
Il prologo dell’esile trama di Our Dancing Daughters consiste nella presentazione delle tre ragazze “danzanti”: insieme con Diana, le sue amiche Beatrice e Ann. Anch’esse si preparano per il party allo Yacht Club cui sono invitate, seguendo lo stesso rituale fatto di prove di abiti eleganti, raccomandazioni dei genitori (!), attese degli impazienti amici e spasimanti che le accompagneranno. Le esortazioni al bon ton delle madri sono destinate ad essere disattese dai disinvolti comportamenti delle figlie, libere da costrizioni di sorta. Tutto ciò che sa di trasgressione è però una parentesi di facile eccitazione, e il film ne dà una versione per così dire addomesticata, attenuando le punte più accese di un disordine piegato alle esigenze della morale corrente, quella che avrebbe ispirato l’incombente Codice Hays.
«Io voglio vivere per me, solo per me, finché avrò vita» è il credo egoista professato esplicitamente da Diana con una punta di malizia e con l’esuberanza giovanile di cui dà prova anche nel corso del party, con gli sfrenati charleston in cui si esibisce fra l’ammirazione dei meno estroversi corteggiatori. Fra questi spiccano quelli interpretati da Johnny Mack Brown, oggetto dei desideri convergenti di Diana e Beatrice, e da Nils Asther, futuro generale Yen nel capolavoro di Frank Capra, L’amaro tè del generale Yen.
Le sequenze dei balli sono il Leitmotiv dell’intero film, che sembra echeggiare quanto Francis Scott Fitzgerald (1960) scriveva circa la generale frenesia per la danza nella sua Età del jazz: «la gente che aveva superato la trentina, la gente che arrivava fino ai cinquanta, s’era unita alla danza. Noi, saggi brizzolati ricordiamo il bailamme quando nel 1912 nonne di quarant’anni gettarono via le stampelle per prendere lezioni di tango e castle-walk. Una dozzina di anni dopo una donna poteva mettere nella valigia Il cappello verde (romanzo popolare di Michael Arlen, 1924, n.d.r.) con le altre cose accingendosi a partire per l’Europa o New York. Ma la corsa non ebbe luogo. Qualcuno aveva commesso uno sbaglio e l’orgia più costosa della storia ebbe fine».
Harry Beaumont ferma il suo film al di qua di questa ideale soglia. Il disincanto conseguente all’amara presa di coscienza della realtà avrebbe dato al suo film una consistenza ben al di là delle sue più limitate ambizioni: nessuna ombra infatti si può immaginare possa turbare le dancing daughters, totalmente immerse nella loro “dolce vita”. La felicità, di cui parlava lo scrittore, pure intimamente complice della jazz age, era un miraggio, ma i personaggi del film non erano certo consapevoli di quanto essa fosse “innaturale, innaturale come il boom”, seguito “dall’ondata di disperazione che spazzò l’intera nazione quando il boom ebbe fine”.
Il film si articola in tre direzioni, seguendo le tre ragazze soprattutto nei loro flirt. Il personaggio di Diana riassume il senso della storia e ne chiarisce il sostrato ideale. Se Ann fallisce nel suo obiettivo – un matrimonio come si addice alla sua posizione sociale – per colpa della sua irresistibile propensione per l’alcol; se Beatrice vede vacillare la sua immagine a causa di un errore che ne ha compromesso sia pur per poco la reputazione, è Diana che domina incontrastata con la sua simpatia e per un comportamento solo esteriormente fuori dalle norme: autentica flapper, emblema dell’epoca, dominata da uno spirito di autonomia e da una voglia di vivere che la spingono all’eccesso (ma soltanto fino a un certo punto!), in fondo rivelandosi sempre disponibile al rientro nell’ordine. Personaggio à double face per eccellenza, la Crawford esprime un’etica ambivalente, fra i cui interstizi c’è posto per qualche deviazione (si pensi allo “scandalo” suscitato dal suo charleston, vestita solo di una blusa molto larga) destinata ad una finale ricomposizione.
Infatti Our dancing daughters, seguendo l’onda del tempo e i suoi modelli culturali, condivide solo apparentemente la esteriore “licenziosità” dei costumi dei roaring twenties prospettando un “ravvedimento”, più diffuso e meno apparente, conforme ai principi da cui soprattutto la morale cinematografica non avrebbe mai potuto derogare. Si tenga presente inoltre che una major come la MGM, che produsse il film di Beaumont, si rivolgeva prevalentemente ad un pubblico familiare, di mentalità tradizionale, che non avrebbe accettato del tutto una linea di condotta ispirata ad un esasperato edonismo: un comportamento che il personaggio centrale del film, col suo modo di atteggiarsi poteva incoraggiare.
A proposito dei costumi femminili in via di evoluzione, è significativo ciò che Colleen Moore, fra le altre, proclamava: «le sottane fino ai piedi, i busti e le fluenti trecce hanno fatto il loro tempo La ragazza americana deve rendersene conto. È una persona indipendente che pensa di testa propria e non è disposta a seguire servilmente gli editti di coloro che in passato hanno stabilito che dovesse portare questo o quello». Tuttavia, le giovani donne «immerse nella celebrazione dell’inebriante vittoria che, sia economicamente, sia socialmente era tutta loro, dopo aver combattuto la loro battaglia per ottenere innovazioni legislative, dovettero constatare però che nessun uomo», come avverte Marjorie Rosen (1978), «voleva avere una sgualdrinella per moglie, sebbene questa potesse ora a volte permettersi di assomigliarle; le donne, le cui mete erano ancora il matrimonio e i figli, generalmente non volevano mettere a repentaglio il proprio avvenire. Sotto la superficiale vivacità, l’intera nazione custodiva gelosamente un’anima pudibonda; coloro che la minacciavano dovevano essere eliminati». È ciò che nel film di Beaumont accade a Ann che subisce la “punizione”, inflitta dalla morale sociale per la sua “debolezza” e per la sua violazione delle regole.
Sono questi i principali motivi di interesse di Our dancing daughters, come sottolinea James Card (1994) che così li riassume: «per lo storico sociale è un film importante. Si tratta di un morality play della fine degli anni Venti, una drammatizzazione visivamente eloquente per la comprensione popolare dello scontro fondamentale all’epoca fra l’eredità puritana e la spinta postbellica dei giovani verso un nuovo atteggiamento nei confronti della libertà sessuale e verso il piacere edonistico procurato dai possibili privilegi di cui godeva una parte fortunata della società». E a proposito della Crawford afferma che «recitò troppo presto: se solo i film degli anni Venti fossero stati più rispettati, avrebbe potuto essere riconosciuta come la formidabile attrice che era».
Svolto prevalentemente sul registro della commedia sophisticated, Our Dancing Daughters ha una struttura per così dire circolare, ripetitiva, che trova la sua giustificazione in ciò che il titolo bene riassume per quanto riguarda i personaggi femminili, contrapposti a quelli dei loro scialbi corteggiatori, che si scambiano i ruoli, ciascuno essendo attratto in pari misura dalle tre ragazze “danzanti”.
Harry Beaumont, che firma il film, fu uno dei registi più prolifici della Hollywood a cavallo del sonoro, autore di decine e decine di film, pochi dei quali hanno superato l’esame del tempo. Fra quelli che per una ragione o l’altra meritano di essere ricordati c’è La canzone di Broadway, uno dei primi musical hollywoodiani, premiato con l’Oscar come migliore film dell’anno (lo stesso di Our dangerous daughters). Pochi ne furono presentati da noi, sebbene la sua carriera fosse ricca di prodotti di successo: fra gli altri, degno di menzione quello riguardante dei personaggi che sarebbero ritornati più volte negli anni Trenta (le Gold Diggers del film omonimo) nonché Lord Brummel. Il sodalizio con la Crawford, che doveva tanto a Beaumont, proseguì qualche anno dopo con La via del male, in cui si respira la stessa aria di Our dancing daughters. Per sfruttare il successo di quest’ultimo fu girato l’anno dopo Our Modern Maidens (Ragazze americane) protagonista ovviamente Joan Crawford, ma con la regia di Jack Conway.
Bibliografia
Anger K. (1987, 2000): Hollywood Babilonia, I e II, Adelphi, Milano.
Card J. (1994): Seductive Cinema. The art of Silent Film, University of Minnesota Press, Minneapolis.
Rosen M. (1978): La donna e il cinema, Ed. dall’Oglio, Milano.
Scott Fitzgerald F. (1960): L’età del jazz, Il Saggiatore, Milano.
Filmografia
Che fine ha fatto Baby Jane? (What Ever Appened to Baby Jane?) (Robert Aldrich 1962)
Cosetta (Clarence Badger 1927)
Gold Diggers (Harry Beaumont 1923)
Il mio cuore aveva ragione (Orchids and Ermine) (Alfred Santell 1927)
Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce) (Michael Curtiz 1945)
La canzone di Broadway (Broadaway Melody) (Harry Beaumont 1929)
L’amaro tè del generale Yen (The Bitter Tea of General Yen) (Frank Capra 1937)
La via del male (Dance, Fools, Dance) (Harry Beaumont 1931)
Lord Brummel (Harry Beaumont 1924)
Ragazze americane (Our Modern Maidens) (Jack Conway 1932)
The Unknown (Tod Browning 1927)