uzak_1_Troppo_fiso_Erotismo_e_pornografia_nel_cinema_3

Tant’eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
[...]
quando per forza mi fu volto il viso
ver la sinistra mia da quelle dee,
perch’io udi’ da loro un «Troppo fiso!»

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio XXXII)

 

Quanto può divenir labile il confine tra fantasia e allucinazione?

Collassa la fantasia che non è riuscita a stringere alcun patto di non belligeranza con la società; collassa la fantasia quando il sodalizio si fa serrato, deformazione grottesca di questa nostra società civile.
Questo è il desiderio: una fantasia che deve fare i conti con le convenzioni, un ossimoro, piacere regolato e inappagabile, referente dell’assenza. Una malattia cancerosa che ci modifica il corpo e che scopre la nostra immunodeficienza, il fallimento delle funzioni regolatrici del nostro organismo.

Un cancro non è anarchico. Il desiderio non è necessariamente rivoluzionario, o meglio, è una rivoluzione che chiede di affogare nelle sabbie mobili.
Il desiderio guarisce nella visione?
Cerco il rovesciamento dello sguardo in lettura partendo dall’evidenza dell’immagine, dalla sua intimità che non è interiore o celata, bensì esposta.
Lo spostamento dalla mancanza interna alla proiezione esterna dell’atto pornografico è immaginifico e sostenuto dalla tecnologia che lo rende un cambiamento di superficie: cancellando quella lastra pur sottile che separa «esterno» e «interno», restiamo sulle increspature della metafora che incorpora e nasconde il congegno proiettivo che la fa funzionare e, spostando i significanti, «interpella» il pubblico «non solo come osservatore di film ma anche in quanto film» (Chow 2004, pp. 98-99). Le immagini non tacciono l’orrore della mancanza, bensì portano se stesse come esse stesse, l’evidenza è la loro propria intimità, «forma cognitiva dell’era tecnologica» (ivi, p. 104).

Il fuoco della pornografia non è l’azione sessuale, non è nei mutamenti culturali e ideologici: è nel mito della visibilità, «egemonia dell’occhio», a cui sono aperti nuovi territori di caccia, «le prede fino a ieri salvate dalla tenebra» (Ungari 1975, p. 25).

Le perversioni sessuali vengono alla ribalta in questa Storia dell’occhio per l’occhio e la punteggiano con quei sostituti dell’occhio raccontati da Bataille nel suo romanzo: il pene, la bocca, la vagina, l’escremento (2008). L’investimento dello sguardo cinematografico, oltre a legittimare ciò che fino a ieri era proibito, «sublima alchimicamente le scorie, lo sterco, qualunque materia vile o perversa, per trasformarla in una superiore e sottile essenza di desiderio, perciò in eros» (Pulici 2006, p. 6). Così il corpo nudo di Carole Laure, in Sweet Movie-Dolcefilm (Makavejev 1974), che si rotola in una vasca di cioccolato – giocando sull’ambiguità che possa essere sterco –, è speculare al letto di zucchero su cui si srotolano i corpi di Anna Prucnal e Pierre Clementi in un amplesso assassino.
Si tratta di un’arma violenta che pone i confini del mostrabile in espansione e crea l’illusione dell’abbattimento dei tabù sessuali, quando, invece, lo scorno in atto è nei confronti di quelli visivi. La tendenza alla dissacrazione è all’interno di una dimensione visuale, per cui la liberazione del corpo si riproduce nello svelamento di quest’ultimo: il corpo liberato, «ma solo [...] alla vista. E in ciò non vi sarebbe nulla di inerentemente sovversivo, se l’atto dello svelamento non fosse un tabù consolidato nella cultura dell’Occidente cristiano» (Adamo 2004, p. 52).

L’inquadratura cinematografica svela il desiderio come una «patina» (Fontanille 2004), o, forse, una tutina in lattice, che si nutre di tutti gli sguardi che hanno fin lì (s)coperto il corpo e di tutti quelli a venire. Il corpo diviene un luogo capace di raccontare, perché assorbe i mutamenti culturali nel tempo e, contemporaneamente, prefigura le nuove istanze del desiderio. Nel condividere lo stesso etimo latino pěllis, pelle e pellicola indicano un’unione profonda tra corpo e cinema nell’idea di interfacce che permettono entrambe una contiguità e uno scambio tra l’intimità del soggetto e l’esteriorità del mondo (De ruggieri 2006, p. 14).

È rintracciabile chiaramente nel mondo pornografico, soprattutto in quello contemporaneo, la tensione ad un principio di «trasparenza» dei corpi, la volontà ferrea di «oltrepassare le superfici», per «una visione che entra dentro i corpi», e, nello sforzo di trascenderli attraverso una ripresa smaniosa e sempre più ravvicinata dei particolari ginecologici, che par quasi ci si possa infilare anche noi nel misterioso orifizio durante la penetrazione, cerca di scoprire il segreto del desiderio e del sesso (Gribaldo 2006, p. 45). Ma dinanzi a tali sforzi si apre una zona «opaca» (ibidem). La condanna del porno, eppure il suo motivo d’esserci, è nella coazione a ripetersi in questo sforzo: la sua promessa di mostrare l’invisibile è di volta in volta negata e costretta a rinviarsi (Ogien 2005, p. 179).

Questo ci catapulta in una paradossale situazione di coitus reservatus:
Il punto essenziale di quest’arte sta nell’impedire alla potenza di un individuo di svanire, preservando il potere vitale […]. I capelli grigi allora torneranno neri e nuovi denti sostituiranno quelli caduti (Bishop 1999, p. 133).
Lo stesso coitus rinvigorisce il porno, e, così come le tecniche taoiste di conservazione del seme si impegnano nella ricerca di varianti sessuali per mantenere vivida l’eccitazione, la pornografia cerca nuove strade da percorrere, che comportano lo spostamento progressivo del proprio confine, cioè del rappresentabile (Ogien 2005, p. 180).
Però, «il cinema è una terribile macchina per addomesticare: offre le differenze ma in seno a una rassomiglianza più fondamentale» (Ungari 1975, p. 15). Questa rassomiglianza è la fissazione ostinata nella struttura del piacere ripetuto. Ciò che risolve il soggetto, e paradossalmente ne consente la dinamicità, «è una sorta di esagerata, eccessiva, squilibrata fissazione o congelamento, che turba il sempre mutevole ed equilibrato scorrere della vita» (Zižek 2004, p. 136).

Il movimento va ricercato sulle escrescenze del feticismo, in questa attitudine umana alla vita, lì dove sembra impossibile distinguere gli oggetti dai soggetti. Dove un pesce scorticato, per poi essere rimesso in acqua ancora vivo, e segnato da un inesorabile destino che lo porterà a riabboccare all’amo, assurge a simbolo di un’intera umanità, quella dell’Isola (kim ki-duk 2000), che non sa venir meno al proprio congelamento. E il simbolo è un feticcio, un attaccamento ostinato ad un significante vuoto, e quel pesce fissato all’amo si confonde tra i protagonisti fissati anche loro all’amo e al proprio dolore. L’erotismo è intriso di una sofferenza traslata in ogni azione, quel «troppo fiso» polverizzato in ogni scena e che spezzetta ogni scena: i protagonisti non possono prescindere da quest’unico strumento che li lega.
Il pur fievole snodo narrativo è trainato dalla stessa azione che si reitera, che i protagonisti devono ripetere: conficcarsi gli ami da pesca, lui in gola, lei nella vagina. In questa fissazione, non solo metaforica, parlano la loro relazione sessuale rovesciata sui mondi che si portano dietro e che ci sono noti solo in quel frangente immobile concessoci. Gli ami smettono di essere dei semplici oggetti, smettono il loro valore d’uso e vengono assorbiti da un senso che ne supera la funzione più immediata. Il feticismo dell’Isola è nella disincarnazione, «l’erotismo appare emancipato dalla carne e in presa solitaria con l’oggetto», «immagine opaca di qualcosa che non c’è, un’apparenza ma anche un apparire» (Guglielmoni 2002, p. 152 e p. 146).

L’immaginario è uno spazio senza fondo e il feticismo, in quanto immagine, è sfuggevole, non è posseduto dal senso chiaro che comporta lo sforzo di verità, non riguarda il significato. Succede, poi, che l’immagine di un oggetto o di un corpo, in luogo della comprensione del discorso, si rapprenda nella «immobilità di una somiglianza che non ha niente a cui assomigliare» (Blanchot 1967, cit. in paulicelli 1983, p. 201).
L’assenza di corrispondenza tra ciò che il feticcio evoca e l’oggetto nella sua concreta materialità si struttura in una contemporaneità di presenza e assenza. Il cadavere, in questa emblematica compresenza, sintetizza l’irrisolutezza dell’immaginario, a cui un certo feticismo, lo sguardo «troppo fiso»dantesco, è consustanziale. La fissità del cadavere porta la putrefazione, ovvero la trasformazione: precarietà per eccellenza.

La rappresentazione della necrofilia al cinema è tema controverso e, soprattutto in Italia, soggetto alle forche caudine della censura. Ad avventurarcisi sono spesso autori liminali provenienti dall’underground o dall’exploitation, che, sebbene con intenti diversi, trafficano con il putrescente. Nekromantik (Buttgereit 1987) funge da apripista al tabù: non è certo il primo film a trattare l’argomento, ma organizza la necrofilia come pratica e mette in scena un cadavere, oggetto della passione, che non ha nulla della freschezza del fiore appena spezzato. Qui la bellezza coincide con la deformità e l’orrore della morte sporca, zuppa di liquami nauseabondi. Una disperazione romantica, parodia degenerata e grottesca dei classici ménage amorosi, complice la colonna sonora.
La pornografia è un’immagine che, pur nelle sue variazioni, rimane fondamentalmente sempre la stessa: quella della pietrificazione del corpo, che ci dice della sua condizione di appartenenza nell’abbandono a quanto c’è di più comune, «l’unica cosa che si può condividere davvero, seppur come mancanza, la morte» (Bataille 2007, p. 3). Se la pornografia è raffigurabile, nella sua illusoria nettezza, come cruda realtà, l’erotismo e le sue immagini erranti hanno l’inconsistenza dei sogni, «cieca crudeltà dell’assenza» (Bataille 2004, p. 253).
L’assente è la figura dell’oggetto amato nel discorso amoroso, nella cui mancanza esperiamo il nostro coinvolgimento e fascinazione. Sempre «l’unica assenza è quella dell’altro», il corpo osceno è assente al possesso di sé, «egli è, per vocazione, migratore, errante» (Barthes 1979, p. 33). Il suo potere attrattivo è uno sprofondamento nel vuoto. Il vuoto è il tempo della catastrofe, «un pezzo di pura angoscia» (ivi, p. 35). La consapevolezza di questo buco incolmabile ci sottrae all’imperio del futuro sul presente.

Ma la persistenza nell’assenza rende impossibile la sopravvivenza del corpo nella sua complessità sociale e culturale, che pure lo costituisce. Così «l’innamorato che non dimentica [l’assente] qualche volta, muore per eccesso, fatica e tensione» (ivi. p. 34).
È comprensibile, dunque, come l’alterità, ovvero la mancanza, produca un doppio movimento: inorridiamo dinanzi a essa e, al contempo, ne siamo profondamente affascinati.
È la notte della catastrofe, la notte in cui Un caldo corpo di femmina (Franco 1973) si avvicina, dapprima con contorni sfumati, stagliandosi sempre più dal fitto di una boscaglia, poi si avvicina ancora, finché l’occhio non lo comprende più intero; è sul sesso, così vicino, che l’immagine è sfocata… il vuoto ci risucchia… ma Lina Romay, che interpreta la contessa Irvina, la protagonista, urta il mento contro la camera: ci siamo avvicinati troppo.

È il corpo pornografico, un corpo fatto a pezzi, e, nel migliore dei casi, mangiato. Il tagliuzzamento e l’assenza, in questo smembramento del corpo, trovano un rapporto privilegiato nelle immagini cinematografiche a 24 fotogrammi al secondo, le quali fondano il proprio statuto sul regime scopico di cui parla Metz, sul desiderio voyeuristico di vedere e la pulsione invocante di sentire, il cui rapporto peculiare con l’assenza ha in comune con il discorso pornografico la stessa modalità scrutatrice del corpo e del suo investimento libidico (1980).
Il loop del desiderio rende concreta la riproducibilità intrinseca al mezzo cinematografico all’interno di uno stesso filmato: è un tentativo esplicito di fuga dalla morte, uno spostamento continuo del tempo.
In tale fissazione ostinata c’è una nota risibile. «Tutti gli eventi […] si presentano due volte. […] La prima volta come tragedia, la seconda come farsa» (Bergson 1996, p. 29).

Prendo in prestito il conte Dracula di Paul Morrissey (Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!!, 1974), il cui desiderio di sangue vergine è sbeffeggiato e eluso nella patria del cattolicesimo. Il povero vampiro corre a vomitare il sangue impuro nel bagno e, malato di questa sua bramosia, riprova e vomita ancora. Il desiderio, nella ripetizione, segue automaticamente il suo cammino senza preoccuparsi di prendere contatto con la fluidità sociale (nel nostro caso, il cambiamento dei costumi, anche in Italia). Si assiste, allora, ad un «irrigidimento contro la vita sociale» (ivi, p. 28).
In Rocco più che mai a Londra (1998), Siffredi affronta alcune ragazze inglesi di cui cerca l’annichilimento tramite pratiche violente e atti di urofilia. Nell’act finale la pratica si ripete in un’apparente inversione dei ruoli: il ribaltamento, infatti, è reso possibile solo dalla trasformazione di Siffredi, che viene truccato e rivestito da donna. Ecco la nostra farsa erotica, la nostra seconda volta.
La ripetizione non è solo la parola chiave del desiderio, ma percorre la struttura dei generi popolari negli anni del consumo di massa. Porta con sé una rigidità meccanica e macchinina, e una forte stereo-tipizzazione dei soggetti desideranti e desiderati.

Il genere si sedimenta entro un sistema di reiterazioni, formule, situazioni, frasi.  Come si struttura questo piacere?
Tale forma di godimento è affine a quella provocata dalla narrazione orale che «risponde a criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle ripetizioni […]. Il piacere infantile d’ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete» (Calvino 1993, p. 43).In un’operazione dal gusto sadiano estendo le proprietà della lingua, intesa come struttura, alla sistemazione delle immagini pornografiche.
L’eccitamento dal testo, sia esso letterario o visivo, è dato nella manipolazione del tempo, che «può fermarsi del tutto, come nel castello della bella addormentata» e nei fermo-immagine pornografici, o nutrendosi della rapidità «d’idee simultanee, [l’eccitamento] può derivare e da ciascuna parola isolata, […], e dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di parole o frasi» (ivi, pp. 45-49).

L’immagine si sostanzia come lingua, dove tutto avviene come in una recita che non si snoda narrativamente, ma per giustapposizione di figure retoriche, quale «la metafora, che sostituisce indifferentemente un soggetto a un altro secondo uno stesso paradigma» (Barthes 1977, p. 121).
Nella letteratura sadiana, il paradigma è quello della «vessazione» (ibidem). Lo stesso dei video bondage della Insex, in cui le modelle sono nominate da numeri. Ecco un canovaccio tipico:
Intervista iniziale, con cappio al collo. […]. Dalle prime umiliazioni psicologiche, si passa ai fatti: legata, imbavagliata e appesa… Poi infilata in una cassa e caricata (sempre appesa) all’interno di un furgoncino: il Master la porterà in aperta campagna… Costretta ad arare un terreno, gogna al collo, viene poi rinchiusa sotto terra, con grata al terreno. La buca viene riempita d’acqua. […]. In seguito, sempre legata, striscerà come un animale prima del macello […]. La conclusione: costretta a scavare una buca, verrà sepolta viva, riversa, con solo un tubo per la bocca per respirare (Curti – la selva 2007, p. 508).

L’estremo coevo ha una nuova faccia, o meglio, ne è sprovvisto.
La violenza che domina oggi la pornografia è un divertissement che ignora il suo referente: il corpo e il suo dramma; così facendo funziona da coadiutore al mantenimento dello status quo, accettazione passiva di gerarchie e stereotipi sessuali. Immagine dura dal «senso incrostato», in cui «l’altro è presente solo in superficie, mentre in sostanza la sua voce, la sua possibilità di rivalutazione, sono assenti» (Dagostino 2006, p. 133).
Siamo in piena overdose di immagini erotiche e pornografiche, le rappresentazioni, cui il nostro corpo è avvezzo, ci inondano lasciandoci ben poche possibilità di partecipazione. Questa pervasività e «sovraesposizione» conducono in maniera inversamente proporzionale alla «cecità, [al]la perdita della facoltà di vedere», e «non sono solo l’occhio e lo sguardo a scomparire, ma i corpi» (Virilio 1997, trad. in de ruggieri 2006, p. 66).
Sciolto ogni tabù, o meglio, mistificando questa sorta di liberazione, in quanto si tratta, in realtà, di un’operazione omologante, una sutura che ha garantito al mercato un prodotto di successo, abbiamo uno sciorinamento del corpo, che diventa fluido per godere, in cambio, della magia dell’ubiquità. Eccoci dinanzi allo «Stesso», sempre (Baudrillard 1990).

La nostra società costituzionalmente democratica ed economicamente capitalista, non potendosi più permettere l’atto di sterminio concreto dell’alterità radicale, restando coerente ai propri principi e al contempo assicurandosi un surplus di valore, ha scelto di inglobare l’altro, passando per una politica dell’identità e della differenza.
L’alterità del corpo pornografico è trattata con lo stesso piglio imperialista con cui il «nativo» compare nei discorsi dello studioso occidentale: la sua presenza nel tessuto sociale è legalizzata solo in virtù di un «processo nel quale la nostra identità viene misurata in rapporto a quanto noi assomigliamo al nativo/a e lui/lei a noi» (Chow 2004, pp. 31-32). Si tratta di trasformare un’alterità radicale in un’alterità negoziabile, ditata di quei permessi amputativi che le conferiscono «convalida e accettazione» (ivi, pp. 60-61).
Così la pornografia mette panni eleganti e tollerabili per farsi accessibile, ma mantiene anche l’illusione della provocazione nel momento in cui facciamo di essa un feticcio del differente da. È proprio questo differente da a rappresentare un marchio goloso e terreno per una speculazione senza eguali per il mercato capitalista, che trova il suo perno nel concetto di «obsolescenza: le cose […] sono cioè destinate a invecchiare, a essere superate e sostituite da altre che subiranno poi lo stesso processo» (Baroni 2006, p.  32). È, quindi, un principio di sostituibilità a governare il rapporto con l’eccedenza, il quale presiede al processo di «estetica della decontestualizzazione», teorizzato da Appadurai, per cui «il valore […] viene accelerato e aumentato collocando gli oggetti e le cose in contesti improbabili» (1986, trad. in Chow 2004, p. 42).

Lo «stornamento», azione violenta di sconvolgimento all’interno del meccanismo di ripetizione, è utilizzato in seno al meccanismo capitalista di circolazione delle merci (Debord 1995). L’hard funziona come sigillo di garanzia all’autorialità, un’avanguardia che si gingilla tra i fantasmi della provocazione: Destricted (Noé 2006), Irréversible (Noé 2002). «È l’arte che è diventata pornografia o è la pornografia che è diventata arte?» (Curti – la selva 2007, p. 528).
Il cinema e il concetto di proibito non chiedono, per mantenere il proprio vigore, altri tabù da abbattere con cui illuderci di aver conquistato nuove porzioni di libertà rendendoci, invece, un po’ più schiavi, ma un più consapevole posizionamento di autore e pubblico nei confronti dell’arte cinematografica, così come dei prodotti senza questa pretesa.
Viene da chiedersi se il vero tabù del cinema sia quello visivo e non quello del buio, il buio che cala sull’occhio squarciato alla visione in Un chien andalou (Buñuel 1929), il buio per «rovesciare lo sguardo in lettura» (Ungari 1975, p. 27). L’uomo il cui volto diviene quello di un morto nel momento in cui accarezza il seno di una donna è significativo, non solo del rapporto sostanziale nella nostra cultura tra sessualità e senso del peccato, ma anche dell’autofagia cui è destinata la visione e con essa il corpo.

È su questa stessa tela che i valori e le norme presupposte nella ripetizione del desiderio possono riformularsi. Il desiderio inteso come rituale, atto performativo che «costringe alla citazione» dei tradizionali ruoli di genere  investe «di un potere vincolante l’azione» (Butler 2004). In quale interstizio, dunque, può trovare spazio la resistenza alle norme che la ripetizione stessa del desiderio presuppone?
In Erzsébet Bàthory, episodio contenuto in I racconti immorali di Borowczyk, (Borowczyk 1974) la vestizione del paggio ha il sapore di una bestemmia lanciata al matrimonio: mentre all’inizio del racconto il paggio era l’uomo, diventa poi la donna, e la contessa«l’uomo che la sposa» (Caprara 1980, p. 62).
La pornografia produce pratiche di resistenza all’interno della consapevolezza del suo potere di citazione, riconoscendo «le stratificazioni di significato» a cui si richiama (D’ottavio 2007, p. 93).
Una pornografia visionaria che non si preserva dall’affondo in quello spazio stridente tra fantasia e convenzioni, in quell’ambiguità e in quella melma della realtà in cui è calato il desiderio, lì dove l’hard, ideologicamente corretto, perde in immediatezza, carica propulsiva, e mantiene latenti i dissidi sociali. Un abuso sensoriale che tradisce il referente, la verità e, scoprendola, non la svela semplicemente, la viola: la voluttà dei significanti che si liberano dal dominio del significato profana, spreca nel lusso di un messaggio inutilizzabile per una circolazione totale e totalitaria.

 

 

Bibliografia

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FILMOGRAFIA

Caldo corpo di femmina, Un (Jesus Franco 1973).

Chien andalou, Un (Luis Buñũel 1928).

Destricted (Matthew Barney – Marina Abramovic – Richard Prince – Sam Taylor-Wood – Marco Brambilla – Larry Clark – Gaspar Noé 2006).

Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (Paul Morrisey 1974).

Irréversible (Gaspar Noé 2002).

Isola, L’ (Kim Ki-Duk 2000).

Nekromantik (Jörg Buttgereit 1987).

Racconti immorali di Borowczyk, I (Walerian Borowczyk 1974).

Rocco più che mai a Londra (Rocco Siffredi 1998).

Sweet Movie-Dolcefilm (Dušan Makavejev 1974).

 

Amalia Franco si è da poco laureata in  Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Bari con una tesi in Semiologia del Cinema e degli Audiovisivi. Attualmente studia teatro presso l’Accademia internazionale di teatro di Roma.