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Forse a un anno di distanza le cose sono cambiate. Ma soltanto un anno fa, all’incirca dal mese di settembre, sembrava essere diventato impossibile l’utilizzo anche solo del termine “videocrazia” a prescindere dall’omonimo film di Erik Gandini, presentato con clamore, peraltro prevedibile, alla scorsa Mostra di Venezia, non nella selezione ufficiale, ma come “evento speciale” della Settimana della Critica in (prudente) collaborazione con le Giornate degli Autori.

Eppure, nonostante l’impatto mediatico del film, in un contesto italiano dove sembra che la censura agisca con minore efficacia e capillarità dell’autocensura, occorrerà ricordare che una definizione era già stata coniata. Per “videocrazia” in diritto civile si intende il potere delle lobbies economiche sui mezzi di comunicazione di massa ed in particolare sulle radiotelevisioni; tale potere può diventare la causa di notevoli distorsioni sull’opinione pubblica e può delegittimare surrettiziamente i sistemi elettorali che sono istituzionalmente ancorati a principi pluralistici, garantistici e di trasparenza. Coloro che hanno potere sui network, infatti, hanno la possibilità di dialogare quotidianamente con gli elettori e attraverso i sondaggi [Sondocrazia] conoscerne esattamente desideri, gusti e tendenze. In tal modo costoro sono in grado, senza ricorrere alla mediazione dei partiti politici tradizionali, di proporre quotidianamente programmi, idee e candidati vincenti soprattutto perché hanno l’incontrollata facoltà di fruire a loro piacimento degli spazi di comunicazione politica con una presenza più o meno latente anche nei programmi di puro intrattenimento (aa. vv. 2009).

Ma la storia di questo termine ha radici più lontane. Potrebbe risalire a un articolo apparso su «la Repubblica» il 7 marzo del 1995 dal titolo È la videocrazia il nuovo fascismo, dove l’autore, Umberto Rosso, ne attribuirebbe la paternità a Massimo D’Alema, in riferimento alla situazione italiana nella quale l’allora come oggi attuale premier Silvio Berlusconi «sostituisce la tv ai partiti» e «rompe con la tradizione democratica». Ma anche sulla pagina in inglese di Wikipedia, la definizione è «the power of the image over society», la fonte primaria è un’altra, peraltro dello stesso anno. Una fonte autorevole a cui anche D’Alema potrebbe realisticamente aver attinto: il lungo intervento di Gianpietro Mazzoleni, ordinario di Sociologia della Comunicazione alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, Towards a “Videocracy”? Italian Political Communication at a Turning Point,  pubblicato sullo «European Journal of Communication», nel 1995. Ad essa, sebbene senza un impiego letterale del termine in questione, si riallaccia idealmente l’analisi di Giovanni Sartori in Homo videns. Televisione e post-pensiero (1997). Dunque, siamo di fronte a un concetto che non è soltanto un concetto, ma uno stato di cose italiano, che, come giustamente sostiene Gandini nel suo Videocracy, dura da trent’anni e coincide con il “caso” Berlusconi: caso prima ancora che politico, poi politico-mediatico. A questo punto sarebbe anche interessante spiegare come è stato recepito il film di Gandini almeno sulla carta stampata. Dopo l’attesa per il bisogno spasmodico di vederlo, parlarne, dire la propria partendo dalla premessa che fosse un film unicamente su e perciò contro Berlusconi, se ne è sminuito il valore sostenendo nelle più benevole recensioni che sull’argomento ormai tutti ne sanno molto più di quanto arrivi a dire Gandini. Detto altrimenti: Gandini, essendo italo-svedese, non conosce abbastanza le cose italiane e quindi non scava più in profondità; il film nasce datato, a fronte delle ben più consistenti dichiarazioni pubbliche delle moglie Veronica Berlusconi, dello scandalo legato alla neomaggiorenne Noemi Letizia, delle dichiarazioni della escort Patrizia D’Addario. Come se il valore di un film, che ha dei tempi di produzione e postproduzione che non gli permettono di essere aggiornato in tempo reale e di competere con l’informazione televisiva, fosse direttamente proporzionale alla quantità di notizie ivi contenute e non alla qualità del ragionamento che da queste prende le mosse. Come se in Italia il fatto di saperne di più, di conoscere più particolari, garantisse a priori una maggior competenza e non lasciasse piuttosto intravedere un grado di assuefazione che, invece, a un osservatore per metà “straniero” manca, e si traduce – anche con meno notizie fresche di giornata rigorosamente su Berlusconi – in sconcerto, preoccupazione, allarme.

Il problema, superata la fase “calda” veneziana, andrebbe posto in maniera diversa. I personaggi al centro del film di Gandini, da Lele Mora e Fabrizio Corona, che ne sono i veri protagonisti, a Simona Ventura o Flavio Briatore, che vi appaiono di straforo nel gran coro di aspiranti veline e tronisti, partecipano tutti, consapevoli o no, di un affresco che ritrae gli ultimi trent’anni della televisione (e della politica) italiana dall’avvento delle tv private a oggi. E di cui Berlusconi non è che il front man.

Cos’è in definitiva la “videocrazia”? Secondo Gandini, italiano d’origine e svedese di adozione, che ha più volte affrontato nei suoi documentari aspetti chiave del mondo contemporaneo, come in Surplus e Gitmo, è il sistema di potere televisivo, a forte densità erotica, di cui l’Italia offre, oggi, l’esempio più consistente ed emblematico. Videocracy non è esattamente un film su Berlusconi, ma un film sull’Italia berlusconiana di lunga durata: fisiologicamente, sociologicamente e forse persino antropologicamente berlusconiana. L’Italia in cui, come afferma Nanni Moretti nel Caimano, Berlusconi ha già vinto. Un’Italia trentennale, ossessionata dall’esibizionismo sessuale e dalla totale assenza di freni morali – perciò anche molto incapace di guardarsi allo specchio –, che viene restituita dallo sguardo attento di uno “straniero” sui generis, la cui relativa italianità gli ha consentito una conoscenza sul campo del fenomeno analizzato. Ma il suo film non rincorre l’attualità o lo scandalo. Non insegue la notizia o il gossip. O, piuttosto, estende il campo semantico del gossip a pratiche di rappresentazione sessuale a larga circolazione che, come insegnava George Orwell in 1984 (sbagliando di poco sulla data fantascientifica, appena posteriore rispetto alla genesi storica del fenomeno), consentono un mantenimento del potere a livello pulsionale, e quindi più capillare ed efficiente. Non è casuale che la “videocrazia” punti molto sulla visualizzazione della componente erotica, sottraendola così alle utopie rivoluzionarie marcusiane, e mantenga un rapporto di stretta contiguità con la pornografia, la cui massima diffusione cinematografica a livello mondiale si ebbe nei primi anni Settanta come risposta alla liberazione sessuale e al Sessantotto, e in Italia con il dovuto e mirato ritardo nel 1978, come reazione al movimento femminista e in concomitanza con l’avvento delle tv private, dove sia i varietà “a tema” che i film pornografici circolarono indisturbati. Poi i film furono girati non più in pellicola ma in video. Insomma, ad ogni epoca il suo supporto. E i suoi canali di diffusione. Lo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, la nuova frontiera di internet che sta contribuendo in modo cospicuo a generare un contesto allargato, quasi normalizzato per la pornografia audiovisiva. E che, ad esempio, consente a chiunque di inserire su un qualsiasi motore di ricerca parole come “sex”, “hard”, “porn” o persino “gossip” e “vintage” per ritrovarsi immediatamente su una miriade di siti che consentono la visione di lunghe sequenze di film pornografici, recenti o del passato, promosse queste ultime al rango di “classici”, con tanto di giudizi critici superlativi e nostalgici, senza necessariamente iscriversi o dare il proprio improbabile assenso di soggetti maggiorenni (come se poi la maggiore età fosse indice di una sopraggiunta maturità intellettuale necessaria a far che? A guardare i film a luci rosse). C’è persino un sito italiano – uno per modo di dire, perché probabilmente sono molti di più – di cui eviteremo di indicare il link preciso per ovvie ragioni, fidando piuttosto nell’operato della polizia postale. Un sito che consente l’accesso diretto a lunghi brani di film pornografici o a film interi senza nemmeno il bisogno di registrarsi, di acquistare o di dichiarare formalmente alcunché, aggirando l’ingresso principale, l’home page. Ma qui la furbizia dell’utente pruriginoso c’entra ben poco. La verità, come si diceva, è un’altra: sotto falsi filtri, è la facilità di accedere alla pornografia il vero obiettivo, renderla pervasiva, onnipresente, a portata di mano, come una realtà perfettamente fruibile. Con una contropartita, orwelliana, degna di 1984, che consiste nel ribaltare la prospettiva. Non è l’utente che guarda, ma è il sito che guarda lui, siglando un principio di complicità, di compresenza diciamo così “geografica”. Cioè sullo schermo in molti di questi siti l’utente risulta immediatamente localizzabile, con buona pace dell’accesso facilitato, del consumo gratuito delle immagini apparentemente “vietate”. Il sito conosce l’ubicazione dell’utente, la zona in cui vive, da cui si connette, e gli offre contatti con soggetti disponibili nella stessa zona o negli immediati paraggi territoriali. L’anonimato viene così trasformato in un controllo automatico e invito a partecipare alla “comunità” dei pornomani.

Come si può, alla luce di tutto ciò, affermare che esiste di fatto un divieto, e non sia piuttosto la pornografia un prodotto di uso e consumo agevolato, non necessariamente a pagamento o vietato ai minori? In un contesto – lo ripetiamo: orwelliano –, dove si guarda e si è guardati allo stesso tempo dallo schermo, e in cui l’Italia si trova in prima linea, con il suo sempre più frequente intreccio di politica e affari legati alla produzione, alla diffusione, al ricatto delle immagini pornografiche, Videocracy si può dire che non sia arrivato troppo tardi sul luogo del “delitto”. Piuttosto, ha inquadrato con largo anticipo e la giusta distanza di sicurezza per non restare invischiato da quelle stesse immagini, onde sviluppare una misura critica singolare rispetto alle circostanze e ai personaggi rappresentati. O ai materiali di repertorio selezionati e assemblati, cui il telespettatore italiano, volente o nolente, sembrava o sembra troppo assuefatto: distanza critica fatta di straniamento e profondo sdegno allo stesso tempo. E che sullo spettatore italiano, sedicente “maggiorenne” ma al più maggioritario, che risente ormai antropologicamente degli effetti collaterali della videocrazia che nella fattispecie agisce come pornocrazia diffusa, istituzionalizzata, quotidiana. E magari è convinto di aver già visto tutto ciò o di saperne di più. Videocracy, sebbene sia già passato un anno, sebbene non sia da tempo un film in distribuzione nelle sale, sebbene non faccia più notizia, sebbene sia stato anch’esso digerito, sebbene trovi ormai spazio a buon mercato e solo nelle videoteche a prezzi molto ridimensionati, a noleggio, in vendita, nuovo o usato, può ancora sortire un prezioso effetto terapeutico.

 

Bibliografia

AA. VV. (2009): Elementi di diritto civile, Simone, Napoli.

Mazzoleni G. (1995): Towards a “Videocracy”? Italian Political Communication at a Turning Point,  in «European Journal of Communication», x, 3, pp. 291-319.

Rosso U. (1995): È la videocrazia il nuovo fascismo, in «la Repubblica»,  7 marzo, p. 7.

Sartori S. (1997): Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari (edizione accresciuta 1998).