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Ci sono film che ci colpiscono con la loro apertura al possibile, coniugando tecnologia e immaginazione. Il cinema di fantascienza spesso ci mette di fronte a un futuro prossimo, basato su una logica del verosimile filmico e, al contempo, ci diverte e a volte stupisce con invenzioni, scenari e oggetti inaspettati. Mondi e cose impossibili nella nostra realtà, oppure invece non così improbabili, vicini a noi eppure alternativi, diversi. Se l’immaginazione del futuro ci mostra spesso un mondo il cui il passato è ancora molto attivo, è per creare un effetto di rilievo, che permette di dare maggiore visibilità all’invenzione del nuovo. Ma anche per rassicurare lo spettatore e per inserire la novità in un frame condiviso, uno scenario psicologico e intersoggettivo che ci permette di collocare un’azione raccontata nella sua giusta intenzione narrativa, senza fraintendimenti.

Per stupire, i mondi “al futuro” hanno bisogno di far leva sulla nostra esperienza e la nostra storia culturale, ossia tutto ciò che normalmente si darebbe per scontato1. L’incanto e il vedere oltre, allora, passano per lo straniamento e la curiosità, diventano meraviglia e possono portare all’estasi, nel senso etimologico di un “rapimento della mente e dei sensi” nel quale “esco fuori di me”, tra esaltazione e allontanamento dalla realtà. Andare in estasi ha a che fare con il rapimento che prende lo spettatore di fronte al meraviglioso del cinema, con lo stato ipnotico in cui si cade grazie al graduale scivolamento in una storia e un mondo ben costruiti: un incantamento che è percettivo, affettivo e cognitivo, e che ha vari stadi e diversi aiutanti narrativi e discorsivi. Faremo un rapido excursus in questa direzione, verificando la nostra ipotesi su tre tipi di figure che riempiono il “mondo possibile” di un film di fantascienza: gli oggetti, i paesaggi, i corpi.

 

Dagli oggetti fantastici agli oggetti incarnati

Piuttosto che descrivere razzi, astronavi e robot, mi vorrei soffermare su una serie di “oggetti impossibili”. Quelli inventati dalla letteratura di genere fantastico, da quella di taglio paradossale fino alla science fiction, sono a volte degli oggetti-chiave di un romanzo o di un racconto, che non esistono nel mondo conosciuto, altre volte si tratta semplicemente di oggetti finzionali utili a quello specifico mondo, o universo, possibile. Il più famoso è forse “Odradek”, l’oggetto impossibile descritto da Kafka nel racconto La preoccupazione del padre di famiglia,  mentre Kurt Vonnegut descrive l’utilità di un “magnetizzatore-aspirapolvere” nel suo libro Piano meccanico, e l’allucinato mondo di Burroughs nel Pasto nudo si popola di oggetti feticcio, a metà strada tra macchine da scrivere e giganteschi scarafaggi. Personalmente preferisco i vari e ameni oggetti di fantascienza descritti da Philip K. Dick nel romanzo del 1968 che ha ispirato Blade Runner, dal titolo Do Androids Dream of Electric Sheep? Una  pecora elettrica è pur sempre una compagna fedele, e ancora più interessante sembra il «modulatore di umore», uno stimolatore cerebrale artificiale «di marca Penfield», con un quadro di comando su cui digitare il codice dell’umore desiderato dall’utente: come spiegano i personaggi nei loro dialoghi, il 481 serve per uscire dalla depressione e avere una «consapevolezza delle molteplici possibilità che mi si aprono davanti nel futuro»; digitare invece un 888 è utile per uscire dall’apatica assenza di desideri con un debole «desiderio di guardare la tv, qualsiasi cosa trasmetta» (Dick 2000, pp. 30-31). Parlerò tra breve degli “oggetti tecnologici” più interessanti, cioè gli androidi al servizio degli umani. Per ora ricordiamo le automobili volanti che sfrecciano con i loro cerchi di luce, silenziose e velocissime, nei cieli cupi e fumosi della metropoli multietnica e babelica di Blade Runner. Proprio in Blade Runner (Scott 1982) troviamo un oggetto tecnologico declinato “al futuro”, che unisce qualità note ad altre ancora solo fantastiche nell’anno di uscita del film: lo scanner-visore per fotografie collegato al televisore di casa del detective protagonista, Rick Deckard. Su comando vocale, la macchina scannerizza la foto indiziaria, zooma su un dettaglio e, infine, stampa il particolare selezionato, dopo una memorabile sequenza di fotografie in movimento discontinuo. Un oggetto tecnologico che appariva negli anni Ottanta avanzato e desiderabile, e che nella nostra epoca di computer portatili sempre più piccoli e leggeri sembra addirittura obsoleto. Proprio la mancanza, in Blade Runner, di computer e informatica ha diviso la critica e dato il via a una ridda di ipotesi. C’è chi sostiene ad esempio che il futuro con nostalgie del passato di Blade Runner, presente negli arredi delle case, nell’abbigliamento dei personaggi e perfino nell’architettura della metropoli, non sia semplicemente ascrivibile al filone “postmoderno”, poiché l’ipotesi sul futuro è esposta restando ancorati a scelte predefinite:

l’ottica con cui il film mette in scena il racconto di una società futura rimane più moderna che postmoderna [...] il décor decisamente ancorato al set, la costruzione di spazi e volumi che coinvolge sia l’aspetto stilistico – brevi carrellate, ampie traiettorie in fly cam, scorci sempre claustrofobici sul melting pot multietnico – sia quello scenografico – le pozzanghere, i costumi, la babele della moda e degli stili, gli oggetti retrodatabili. La tecnologia si risolve nelle macchine volanti [...] e nella rappresentazione dell'industria genetica in grado di costruire copie, simulacri dell'uomo (Menarini 2001, p. 44).

Diverso è il caso di un altro oggetto “futuribile” ancora oggi alla soglia del realizzabile, che appare in Paycheck, film di fantascienza diretto John Woo nel 2003, ispirato al racconto I labirinti della memoria di Philip K. Dick (scritto nel 1953). Nel film il protagonista è un inventore che lavora a servizio di imprenditori che grazie allo spionaggio industriale cercano di ricreare e migliorare i progetti rubati alla concorrenza. Il suo lavoro, rigorosamente anonimo, viene pagato profumatamente con l’assegno che dà il titolo al racconto, e permette di uscire sul mercato con un prodotto simile, ma migliore. Al termine di ogni missione, l’eroe accetta di farsi cancellare i ricordi, così da non poter ricattare i suoi committenti.

Al di là della storia, che è quella del tentativo dell’inventore di ricostruire proprio il passato rimosso, in modo da capire perché non è stato ancora pagato, soffermiamoci sul momento di meraviglia descritto nella scena della presentazione dell’avvenuta clonazione clandestina del progetto rubato.

L’oggetto da copiare è un televisore che sta spopolando  in quel momento: non è un semplice schermo al plasma, né permette solo di godere di immagini tridimensionali. È una tv che, quando viene accesa, produce degli ologrammi, cioè delle immagini tridimensionali, ma con una loro densità e forma (pur sempre immateriale) che fuoriesce dallo schermo. La sfida tecnologica sembra impossibile da superare, però, infine, l’inventore chiama i suoi capi, che aprono il laboratorio nel quale lui ha vissuto segregato per mesi. Gli invitati vengono fatti sedere di fronte a un bancone con due tv del nuovo tipo: diventano quindi degli spettatori, e con noi godono della sorpresa. L’inventore accende la tv già sul mercato, ed appare una presentatrice in forma di piccola statuina di luce e colori, perfetta nell’ologramma che la rappresenta. Poi accende il nuovo prototipo, ed ecco la stessa presentatrice nella stessa identica forma, come un semplice doppione. Gli spettatori insorgono: «ma come? tutto qui?», nessuno vuole una semplice copia del prodotto già in commercio. «Calma», chiede l’inventore, e come un gesto teatrale, toglie dalla seconda tv tutta la scatola attorno all’immagine, cioè il tubo catodico e lo stesso schermo: resta solo la figurina tridimensionale, che parla e gesticola fuoriuscendo come una magia da un fascio di luce ai suoi piedi, un cerchio di luce bluastra che si sprigiona, per capirci, come le fiammelle del gas di cucina. Una tv senza schermo. Nelle più recenti mostre di arte contemporanea, sono molte sono le istallazioni che proiettano su corpi e oggetti immagini in movimento, tentando l’effetto ologramma; altri giocano con doppie cornici di schermi al plasma, che rendono l’immagine duplice, tra figura e sfondo. Ed è di questi mesi la notizia di un primo esperimento di trasmissione via cavo di immagini in forma di ologrammi, anche se la tecnologia per produrli e riceverli sembra troppo costosa.

Un altro tipo di monitor senza schermo si trova in Minority Report, pluripremiato film di Steven Spielberg del 2002, liberamente tratto da un omonimo racconto breve di Dick degli anni Cinquanta, tradotto in italiano come Rapporto di minoranza. Rispetto al racconto letterario le differenze sono notevoli, quasi che Spielberg abbia voluto mantenere solo l’invenzione di una società utopica basata sulla legge della “Precrimine”. Detto rapidamente, la “Precrimine” è una unità speciale di polizia che lavora grazie a delle visioni del futuro di alcuni medium, chiamati “Precog”; questo permette di sventare gli omicidi prima che accadano, arrestando il colpevole. Si tratta di uno dei temi cari a Dick, cioè una forma totalitaria di controllo e di processo alle intenzioni, che può essere manipolata. È quanto scoprirà a sue spese il protagonista, prima capo della sezione di polizia e poi costretto a nascondersi perché indagato ingiustamente sulla base di alcune visioni dei Precog utilizzate in forma parziale e ad hoc. Molte sono le invenzioni di Spielberg in questo mondo futuro così simile e così lontano dal nostro: sembra che qualche anno prima di iniziare le riprese Spielberg abbia convocato un gruppo di  “futurologi”, tra cui esperti del mit e di realtà virtuale, perché lo aiutassero a immaginare un 2054 credibile.

Innanzitutto vige un capillare sistema di controllo legato alla lettura degli occhi come modo di riconoscimento dell’identità delle persone. Viene usato per ragioni di segretezza, ad esempio per accedere agli uffici della polizia, ma anche più estesamente, per puri fini commerciali: chiunque entri in un grande magazzino viene salutato da una voce virtuale con nome e cognome, grazie alla lettura ottica a distanza, e invitato a provare il nuovo prodotto della gamma da lui preferita nella sua visita precedente. Un modo di rendere lo shopping personalizzato, nonché di estendere il controllo sul consumatore in modo capillare.

Una delle novità del film è appunto lo schermo senza schermo: nell’ufficio centrale della sezione di polizia della Precrimine, dalla consolle di comando dei computer sale in verticale uno schermo di pura luce, con il quale si può interagire grazie a un visore e a un guanto da realtà virtuale. Le informazioni scritte e (audio)visive vengono selezionate, le immagini vengono prese e spostate, ampliate o ridotte, in una parola manipolate, con un semplice e deciso cenno della mano. Il tutto quindi senza toccare fisicamente nulla, manovrando una proiezione in aria della tastiera e dello schermo. Nel 2002, la sequenza di Tom Cruise alle prese con la manipolazione delle immagini arrivate dalle produzioni oniriche dei tre Precog stupiva lo spettatore e lasciava ammirati per la potenza inventiva del film. Solo pochi anni fa Minority Report poteva contare sull’effetto straniante di una tecnologia in fase di sperimentazione e all’avanguardia, non ancora nota al grande pubblico, mentre ormai nel 2010 stiamo per abituarci al touch screen, che ha invaso il mercato e le nostre  gestualità quotidiane, dal computer all’iPhone. Se poi pensiamo ai nuovi videogiochi Wii, con consolle interattiva a distanza con lo schermo della tv grazie alla tecnologia wireless, non siamo più così lontani da un touch-pad senza “pad”, cioè da una relazione totalmente virtuale, in cui si perde il contatto, e la differenza, tra il soggetto e l’oggetto.

Per avvalorare la nostra tesi di un mondo di oggetti in cui la fantascienza è un “futuro al passato” soffermiamoci su un oggetto esemplare: il telefonino cellulare. In un racconto sulla Intelligenza Artificiale che ha preso il sopravvento sull’umanità, come la saga di The Matrix, appare, infatti, questo oggetto tecnologico pervasivo del nostro presente come il telefonino. Esso permette di fornire istruzioni, dirigere le azioni degli eroi in fuga e assume, chiaramente, un ruolo di Destinante dei soggetti. Nel primo Matrix è ad esempio Morpheus, il capo dei ribelli che lottano contro le macchine, ad usare il cellulare per «uscire dal sistema», cioè mettersi in contatto con la propria base operativa al di fuori dalla neurosimulazione interattiva chiamata “Matrix”. Il telefonino permette di tenere in contatto mondi paralleli: è grazie a lui che i sabotatori riescono a ritrovare la via di casa, così da uscire dalla matrice che riproduce fedelmente il “mondo reale” per ingannare l’umanità, mentre la vita sulla terra è scomparsa da decenni. I ribelli in missione dentro il mondo di Matrix devono però rispondere a una chiamata da un telefono fisso, attraverso la quale potranno attraversare il «varco nel sistema» e rientrare al sicuro, nel proprio corpo lasciato in attesa al di fuori. Ma per trovare la via d’uscita più vicina, soprattutto quando sono inseguiti e rischiano la morte, devono seguire le istruzioni che dà loro un operatore-centralinista rimasto alla base. E fuggire, saltare, arrampicarsi col telefonino all’orecchio non è cosa sempre facile.

Ci sono telefoni e oggetti più interessanti, come quello che troviamo nel film eXistenZ di David Cronenberg (1999). Iniziamo da un frammento di dialogo:

Lo scienziato [mentre opera]: «Il gate-pod di eXistenZ è in pratica un animale, signor Michael, è ottenuto dalla fertilizzazione di uova di anfibio imbottite di dna sintetico, solo Antenna Research ne ha uno».

Michael:  «E le batterie dove sono?»

Lo scienziato: «Molto spiritoso».

Allegra Geller [la conduttrice del test]: «Non scherza, è solo un ottuso pr, che ne sa? È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica, e non funziona più correttamente».

Siamo entrati in un nuovo campo discorsivo, quello degli incroci e delle alleanze, delle deleghe e delle modificazioni, tra oggetti tecnologici e soggetti nel cinema contemporaneo. Nel film di Cronenberg, “Existenz” è un programma di gioco interattivo che viene sperimentato per la prima volta nel corso del film. Il nuovo modo di connettersi dei vari giocatori è «il gate-pod metacarnale», un pezzo di carne squadrato dalle dimensioni ridotte e portatili, dotato di un cordone ombelicale che si innesta direttamente sulla propria bio-porta. Il corpo di ogni singolo giocatore viene infatti «adattato», penetrato chirurgicamente a livello della spina dorsale, con una «idropistola», come spiega Allegra Geller: «ti sparano la porta dentro [...] lo fanno nei centri commerciali, come bucarsi le orecchie [...] e poi una volta che hai la porta, bzzz, non ci sono limiti ai giochi che puoi fare».

Con allusioni sessuali evidenti,«la bio-porta è un buco nella schiena» che rende ogni utente in grado di affrontare il gioco virtuale entrando corpo e mente nel sistema interattivo, e spostandosi da uno scenario all’altro seguendo le regole imposte dal gioco. La simulazione è ormai, come accadeva in Matrix, un mondo possibile nel quale il giocatore si trova completamente immerso, una realtà parallela fatta di sfide e pericoli, con regole e obiettivi sconosciuti.

In questi scenari apocalittici, i giocatori diventano soggetti oggettivizzati, sempre in pericolo di vita. Modem, joystick, playstation sono ormai oggetti desueti poiché incarnati, installati nel corpo proprio dei giocatori, che con la loro competenza cognitiva e passionale, con la loro “mente” e la loro “memoria”, possono determinare le loro mosse come “corpi virtuali” nel gioco.

Accanto a questi tecno-soggetti, è interessante dare un’occhiata a due tipi di oggetti tecnologici che circolano nel film, le armi e i telefonini, che a loro volta spostano le soglie tra l’umano e il tecnologico. Per superare i rilevatori di metallo e di materiale sintetico dell’azienda che controlla il gioco, i terroristi virtuali che attentano al sistema usano una pistola completamente composta di cartilagine e ossa, facilmente ricostruibile dagli avanzi di un pasto. I proiettili, micidiali, sono denti d’animale. L’oggetto-pistola diviene quindi organico, pur mantenendo la propria funzione d’uso. E questo accade in parte anche al telefonino: Michael, la guardia del corpo di Allegra Geller, ne ha uno con sé, battezzato (nell’edizione italiana) «via-tel». Del telefonino ha mantenuto presumibilmente le funzioni, cambiando però sia forma che sostanza: è un pezzo di materiale leggero e informe, della grandezza di un pacchetto di sigarette, con consistenza e colore tra la gomma e la cera molle. Per attivarlo basta premerlo nel palmo della mano e il via-tel si accende tutto, prende vita, emettendo una debole opalescenza. Come si usi non ci è dato sapere, forse le chiamate sono a comandi vocali, dato che non si intravedono tasti: durante la fuga di Michael e Allegra, la ragazza lo butta dal finestrino dell’auto appena lo nota, spiegando che il collegamento satellitare li farebbe certo individuare. Ci preme sottolineare che grazie al telefonino emerge nei film contemporanei una forma di vita complessa, per la quale si parla ormai di «oggetti ibridi» (cfr. Marrone 1999; De Ruggieri 2004). Agli oggetti tecnologici viene attribuita ad esempio un’interessante marca di fragilità, che li fa divenire dei “quasi-soggetti”. Infatti il telefonino usato dai protagonisti dei film contemporanei può anche ammalarsi, cioè scaricarsi, proprio in una situazione d’emergenza, oppure può improvvisamente guarire e ritrovare il campo di trasmissione, tornare cioè in connessione con la rete dei ripetitori. Esso così incide, a suo modo, nella definizione della situazione narrativa, che può essere grazie a lui di tipo euforico, positiva, oppure, invece, disforica e negativizzante. Nella più avvertita corrente della filosofia della scienza rappresentata da studiosi come Bruno Latour, gli oggetti vanno considerati alla stregua di «attori sociali» rispetto al sistema sociale che li contestualizza. Gli oggetti quindi non «simbolizzano», non «riflettono», non «reificano» le relazioni tra soggetti, ma contribuiscono a formarle: «il senso non preesiste mai ai dispositivi tecnici. L’intermediario non era che un mezzo per un fine, mentre il mediatore diventa mezzo e fine insieme» (1999, pp. 126–27, corsivo mio). Potremmo parlare degli oggetti tecnologici dei film finora esaminati come attanti che tendono a divenire attori discorsivi, cioè veri e propri personaggi. Nella proposta di Latour, essi infatti sono degli «agenti» che funzionano da mediatori: «il senso non è più semplicemente trasportato dal medium, ma parzialmente costituito, spostato, ricreato, modificato, insomma tradotto e tradito» (ibidem). In modi meno estremi che in eXistenZ, i nuovi oggetti tecnologici, più o meno fantastici e “impossibili”, creano una rete “interoggettiva”, si connettono tra loro nel passare informazioni e creano nuovi sistemi di controllo. In sintesi, sono delle nuove alterità tecnologiche autoreferenziali.

 

Corpi, cyborg, replicanti

Ci sono molti esempi di queste alterità tecnologiche autoreferenziali, che potremmo anche chiamare più semplicemente nuove soggettività. A partire da 2001, Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), il mega-computer di bordo che si ribella è diventato un topos, se non un luogo comune, nel cinema di fantascienza. Nel film di Kubrick l’intelligenza artificiale di “hal 9000” smette di essere al servizio degli astronauti e inizia a eliminare gli umani, nell’intento di autoperpetrarsi. In una magnifica sequenza prossima al finale del film, l’ultimo superstite riesce ad annichilire l’intelligenza di hal disinnescando una alla volta le memorie attive del cervellone. L’universo tecnologico di Kubrick è asettico, dominato dal biancore e dalla precisione formale, e l’astronauta al lavoro compie la sua opera di distruzione (e di salvezza) lentamente, meticolosamente. Si riappropria del potere soggettivo di guida della nave riducendo la macchina allo stadio primario, quello della sua infanzia di oggetto passivo.

Le macchine al potere del mondo di Matrix non sono che lo sviluppo conseguente dello stesso tema, con l’inversione che gli uomini, divenuti schiavi inerti, non vengono fatti sparire, ma nascono, crescono e muoiono in sterminati agglomerati di vasche amniotiche, in modo da utilizzare la loro energia elettrica per far funzionare le macchine stesse. La sequenza in cui appaiono gli immensi «campi dove gli esseri umani non nascono, vengono coltivati», come spiega Morpheus all’eroe Neo, è tra le più spettacolari del primo film della saga. Neo si risveglia dentro la vasca in cui è tenuto, a fatica si alza e si sporge per guardarsi attorno: miliardi di vasche piene di esseri umani immersi in un liquido perlaceo, debolmente illuminate, sono disposte in modo circolare per infiniti piani e livelli di enormi strutture cilindriche, quasi fossero delle smisurate bobine. Subito sopraggiunge un guardiano del settore, una macchina insetto che afferra Neo per la gola, lo inquadra nel suo visore, e immediatamente lo espelle dal «sistema di produzione», staccandogli gli spinotti attaccati alla colonna vertebrale che gli servivano per il passaggio dei fluidi vitali. Neo viene così risucchiato dal tubo di scarico dell’enorme impianto ed espulso in acque melmose. Una quasi-morte, che permetterà ai ribelli di ripescarlo, ristabilirne per via chirurgica le funzioni vitali, e infine rimetterlo in piedi pronto ad accettare la nuova consapevolezza di essere un corpo vivo, fuori dal controllo delle macchine. Dato che le macchine «rifanno il mondo», quella di Matrix è una storia che tematizza il remake, ma al contempo parla dei punti di fragilità e di imprecisione delle relazioni intertestuali, sempre in tensione tra prevedibilità e regola, matrice, modello e copia. Neo scopre, infatti, che nella simulazione del mondo reale costruita dalle macchine (la matrice), anche lui in quanto ribelle non è un soggetto originale, ma una replica di altri che l’hanno preceduto in quel ruolo, e quindi che la sua è una «falsa liberà di scegliere», in realtà già preordinata e prevista dal sistema.  Tra l’altro, Matrix rielabora il problema del déjà vu, poiché quando il protagonista Neo vede un gatto fare per la seconda volta lo stesso identico gesto, questa ripetizione viene definita dai suoi compagni come una «smagliatura del sistema», un mostrarsi delle regole del gioco. Vale a dire un punto debole nella costruzione dell’universo parallelo.

L’alterità intesa come doppio inquietante dell’uomo è uno dei temi chiave del cinema di fantascienza. La fusione più o meno tragica tra carne e metallo è ad esempio alla base della creazione di una serie di personaggi al limite tra la macchina da guerra e l’androide, come in Robocop di Paul Verhoeven (1987) o in Tetsuo: The Iron Man, di Shin’ya Tsukamoto (1989).

Nei film tratti dai racconti di Dick la questione dell’alterità non è giocata solo tra la macchina e l’uomo, ma in modo più raffinato tra gradi di umanità e di soggettività diversi. Se la tesi di Dick è che nella società contemporanea cresciuta nel solco del consumismo americano, l’essere umano è così spersonalizzato e alienato che il replicante diventa indistinguibile dall’umano, il problema nel film di Scott è spostato, invece, sulla coscienza di sé della copia2. L’automa non è solo lo specchio di chi potremmo essere, è anche la rappresentazione della coscienza di sé che si vede sconfitta dal proprio limite. Un limite tecnologico, in questo caso, che rispetto all’essere organico e umano non riesce a superare la soglia dell’artificiale, a divenire vita intesa come pienezza di esperienza, sensazioni, affettività. Ricordiamo en passant che il motivo del cyborg, dell’automa che prende coscienza e si ribella al proprio creatore, affonda le sue radici nel racconto del Golem ebraico, e in qualche modo è presente anche in Frankenstein e nel nostro Pinocchio. Non è così stravagante, allora, la volontà di diventare umani, o almeno di rimanere in vita, degli androidi dei racconti di Dick.

In Blade Runner, il capo della polizia spiega al protagonista, il cacciatore di taglie Deckard, che gli androidi di ultima generazione Nexus 6, detti «replicanti», sono «progettati come copia degli umani in ogni senso, fatta eccezione per le emozioni», ma aggiunge un dettaglio: «i progettisti stimarono che dopo qualche tempo potevano sviluppare reazioni emotive proprie: odio, amore, paura, rabbia, invidia. Quindi li dotarono di  un dispositivo limitante: quattro anni di vita». Usati come schiavi nelle «colonie extramondo», alcuni replicanti nel racconto si ribellano, uccidono gli umani che li comandano e riescono ad arrivare sulla terra, nell’intento di mimetizzarsi e di chiedere al loro creatore più tempo rispetto ai pochi anni loro concessi. In fondo, Blade Runner è anche la storia di un disperata urgenza di vita, resa più intensa dalla fine che appare prossima.

Giocato con gli stilemi visivi del noir e del melodramma, Blade Runner instaura una tensione tra umano e replicante in cui la presa di coscienza del simulacro diventa un modo della replica di invocare per sé un’anima singolare o, per dirla con Benjamin, un’aura perduta. In questo senso, il replicante diventa «l’ultima opera d’arte possibile, un’opera d’arte simulacrale, una forza-lavoro in pelle di una modernità totalitaria che ha sostituito all’utopia un efficace sviluppo (modernista) della città e delle merci» (Menarini 2001, p. 45).

Quello che manca ai replicanti di Dick, come dicevamo, è propriamente il sentire intersoggettivo, il patire assieme, l’empatia. È da questo che vengono riconosciuti nei test psicologici cui li sottopongono i cacciatori di taglie come Deckard, con domande trabocchetto che contengono riferimenti all’uccisione di animali o di bambini. I replicanti in Blade Runner, però, hanno la capacità di entusiasmarsi o deludersi, di provare dolore per la morte dei loro simili o meraviglia di fronte alla bellezza. Lo rende esplicito la figura del capo del gruppo dei replicanti fuggiaschi, Roy Batty, che prima si dispera per l’uccisione dell’amata Pris, cerca la vendetta nell’inseguire e terrorizzare Deckard, e, infine, lo grazia. Le sue ultime parole, prima di accasciarsi per il tempo di vita terminato,  sono talmente famose da essere ormai quasi un luogo comune: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia...»3.

Barthes insegna che l’immagine «è ciò da cui io sono escluso» (1980, pp. 162-67). Nella scena della morte di Roy Batty l’esausto Deckard è a terra, di fronte all’androide accovacciato, perso – proprio come lo spettatore – nel primo piano del suo viso rigato dalle lacrime. Con la massima affettività e fusione con il soggetto, il modo del primo piano al cinema ci porta dentro gli occhi azzurro chiaro del replicante, proprio come nell’incipit del film. Ma il tempo del passato appartiene solo alle parole pronunciate, piene di nostalgia per un incanto vissuto come un istante di grazia in una solitudine ai confini del cosmo, sovrumana. L’immagine non è lì per «rappresentare», ma per «rimemorare» (ancora Barthes): nello scarto tra le temporalità del passato individuale e del presente condiviso non vediamo ciò che Roy racconta, ma ci collochiamo, con un fremito, nello scambio di sguardi tra lui e Deckard, nella fusione estesica dei corpi che sentono assieme, e che entrano in risonanza in una compassione tutta umana, fradicia di pioggia.

 

Città, paesaggi e rovine

Al contrario della moltitudine di film catastrofici, nei quali vige la regola della massima visibilità, coadiuvata da effetti speciali digitali sempre più efficaci e sempre al servizio della narrazione, come accade in Godzilla di Roland Emmerich (1998) o ne La guerra dei mondi di Steven Spielberg (2005), Blade Runner è un film sulla opacità della visione. Un modo che ha fatto scuola, se pensiamo ad esempio alla Los Angeles di Strange Days di Kathrine Bigelow (1995), in cui la città caotica, militarizzata e schizofrenica è sempre pervasa da indistizione e offuscamento. Il noir fantascientifico di Blade Runner rappresenta una Los Angeles del 2019 basata sul modello di Hong Kong, eterogenea e polimorfa, con imponenti grattacieli semideserti e fatiscenti, nella quale alla polvere onnipresente del racconto di Dick si è sostituita una pioggia perenne, forse altrettanto radioattiva. Gli esterni sono sempre avvolti dal fumo e dalla semioscurità notturna, trapuntata da potenti fiammate che fuoriescono da enormi ciminiere. Sulle fiancate degli edifici si aprono grandi schermi pubblicitari con donne ammiccanti, e una grande auto volante dalle molte luci e schermi passa incessantemente tra gli edifici spargendo fasci di luce e altre promozioni pubblicitarie. Anche qui il reale perde consistenza in favore del simulacro, per citare Baudrillard (1980)4, mentre si perde la possibilità di una visione nitida. La distopia di Blade Runner passa anche attraverso una catastrofe ottica.

Come ricorda Menarini (2001), gli edifici che intravediamo, in stile Manhattan anni Venti ma con grandi tubazioni esterne, si rifanno, tra l’altro, ai disegni di Le Corbusier e ai fumetti di fantascienza disegnati da Moebius per la rivista «Métal Hurlant», mentre sul landscape domina un edificio enorme dalla forma di piramide Azteca: la sede della Tyrell Corporation, dove si progettano gli androidi. Seguendo Bukatman (1997), i rimandi cinematografici sono a Aurora di Murnau (1927), Broadway di Fejös (1929), e soprattutto Metropolis di Lang (1926), nel quale domina la torre della fabbrica: anche qui la suddivisione verticale dello spazio mima la stratificazione sociale, per cui l’economia e le multinazionali dominano sulla massa dei paria. Nelle strade, per i pochi scorci che ci vengono concessi, l’umanità melting pot, in prevalenza cinese ma multietnica, si coglie vestita di una moltitudine di mode: da chi gira con enormi cuffie ai monaci buddisti, alle uniformi militari, dai punk ai vestitini anni Trenta. La moltitudine è un altro tipo di indistinzione: crea infatti una tensione tra la riconoscibilità e l’illeggibilità del troppo pieno, tra avvicinamento e allontanamento della figura e dello sfondo. Nella moltitudine proliferante di immagini non so dove guardare, e «distruggo la nitidezza con la nitidezza» (Deleuze 1995, p. 20). Spesso questo accade nei film di fantascienza, in cui l’effetto “c’è troppo da vedere” è calcolato, attraverso una indecidibilità del punto di vista: si sfalsano i piani di visione, e si mettono in contrapposizione i diversi piani di precisione e nitidezza dell’immagine. Questo procedimento richiama un modo di fruizione “spettacolare”, permettendo allo spettatore di scegliere dove guardare come se fosse di fronte a una scena teatrale, anche se in realtà rimane indecidibile su quale zona focalizzare maggiormente l’attenzione.

 

Per concludere

A partire dalla folla multietnica e new age che invade le strade ad ogni ora del giorno e della notte, per arrivare alla multiforme e cangiante metropoli immersa nell’oscurità, lo spettatore, di fronte a film come Blade Runner, accetta che ogni visione sia una scoperta, anche grazie alla proliferazione di oggetti, figure e soluzioni sceniche. Una proliferazione di immagini che ci toglie il fiato e ci costringe a rivedere: una logica dell’elenco o della «lista visiva», come la chiama Eco (2009), costruita per creare meraviglia. E, in effetti, cosa ci incanta di film cult come Blade Runner, o come il recente Avatar? Certo il racconto a metà tra il fantastico e il tecnologico-scientifico, ma anche il piacere di uno schermo pieno e proliferante di immagini mai viste. Se in Blade Runner queste rimangono, almeno parzialmente, offuscate e invisibili, va detto che pure in Avatar, film che si presenta nel regime della fantascienza a massima visibilità, lo spettatore non sa dove guardare per non perdersi i dettagli, mentre segue la narrazione. E allora si lascia portare dalla curiosità, saltella con uno sguardo diventato (quasi) tattile grazie al 3d, coglie le luminescenze delle piante nella giungla notturna, le iridescenze dei fiori e delle felci, le delicate sfumature cromatiche di animali mai visti, e si fa portare nella vertigine del volo sul dorso di un drago alato, tra meraviglia e stupore. E se vuole esperire di più è costretto a rivederlo, a immergersi nuovamente negli effetti di presenza del digitale.

Già nel Viaggio sulla luna di George Méliès, del 1902, allo spettatore si presentavano vedute fantastiche, giochi di magia e gag comiche in rapida successione,  «con una prodigiosa varietà di ambientazioni e di soluzioni e con l’irriverenza del caricaturista» (Costa 1999, p. 100). E se Méliès citava Verne e Wells, lo faceva per «isolare spunti per nuovi trucchi da combinare poi secondo la logica della messa in serie di attrazioni» (ibidem), in un modo del bricolage che produceva il fantascientifico mescolando elementi noti con il patafisico e il carnevalesco. Fin dai primordi della storia del cinema, infatti, «l’attrazione dell’immagine fotografica in movimento e quella del trucco sono due aspetti di una medesima strategia» (ivi, p. 104). Come a dire che in fondo, con la nuova frontiera di Avatar, siamo davanti a quella logica delle attrazioni che funziona fin dai primi cortometraggi di Méliès, e che fa del cinema di fantascienza uno dei generi in cui è più forte la relazione di incanto tra film e spettatore (Eugeni 2002).

 

Note

1 Sulle immagini di meraviglia nel cinema di fantascienza e sull’addomesticamento delle figure “aliene” delle astronavi e dei robot  si veda Sobchack (2002).

2 Un tema che il film riprende da un altro racconto breve di Dick degli anni Cinquanta: L'impostore.

3  «I’ve seen things you people wouldn’t believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain...».

4 Rinviamo anche ad Arcagni (2008).


Bibliografia

Arcagni S. (2008): Los Angeles e il cinema postmoderno, in E|C, 2, consultabile sul sito www.ec-aiss.it.

Barthes R. (1980): Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, ed. or. (1977) Fragments d’un discours amoureux.

Baudrillard J. (1980): Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Cappelli, Bologna, ed. or. (1977) L’Effet Beaubourg. Implosion et dissuasion.

Bukatman S. (1997): Blade Runner, bfi, London.

Costa A. (1999): I padri fondatori: Lumière e Méliès, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. L’Europa. Miti, luoghi, divi, vol. i, Einaudi, Torino.

Deleuze G.. (1995): Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, ed. or. (1981) Francis Bacon. Logique de la sensation.

De Ruggieri F. (2004): Tecnologie incarnate, Meltemi, Roma.

Dick P. K. (2000): Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, ed. or. (1968) Do Androids Dream of Electric Sheep?

Eco U. (2009): Vertigine della lista, Bompiani, Milano.

Eugeni R. (2002): La relazione di incanto. Studi su cinema e ipnosi, Vita e Pensiero, Milano.

Latour B. (1999): Piccola filosofia dell’enunciazione, in P. G. Basso e L. Corrain (a cura di), Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, Costa &Nolan, Milano, pp. 71-94.

Marrone G. (a cura di) (1999): C’era una volta il telefonino. Un’indagine sociosemiotica,  Meltemi, Roma.

Menarini R. (2001): Visibilità e catastrofi. Saggi di teoria, storia e critica della fantascienza,  Edizioni Della Battaglia, Bologna.

Sobchack V. (2002): Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, Bononia University Press, Bologna, ed. or. (1980) Screening Space: The American Science Fiction Film.

 

Filmografia

2001, Odissea nello spazio (stanley kubrick 1968).

Avatar (james cameron 2009).

Blade Runner (ridley scott 1982).

eXistenZ (david cronenberg 1999).

Godzilla (roland emmerich 1998).

Guerra dei mondi, La (steven spielberg 2005).

Matrix, The (larry e andy wachowski 1999).

Metropolis (fritz lang 1926).

Minority Report (steven spielberg 2002).

Paycheck (john woo 2003).

Robocop (paul verhoeven 1987).

Strange Days (kathrine bigelow 1995)

Tetsuo: The Iron Man (shin'ya tsukamoto 1989)

Viaggio sulla luna (george méliès 1902).