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Non la naturalezza (naturalismo) del racconto, ma la coagulazione (riverberazione) dei significati, degli indizi, implicita alla lirica, modulano le sequenze di Bright star, per cui, «fermo foss’io non in solingo/ splendore», a dispetto dell’insidia cronachistica o agiografica, che, quand’anche fosse, sarebbe inscritta nella letterarietà (quindi nel codice) di un Romanticismo precisamente ricostruito. Un congegno d’irradiazione che accosta o sovrappone sequenze (in)naturali (in relazione allo spinto sfarzo della natura), in cui si condensano, si amalgamano, si confondono, come nello spazio (il)logico della poesia, vissuti, psicologie, il fluire apparente dell’atmosfera.

Al di là degli elementi biografici sottesi, che a tratti normalizzano la messa in scena, il meglio del film si condensa nell’apparire delle declinazioni del giorno e delle stagioni, proiettate sull’enorme impianto della natura e sulla superficie porosa delle pareti, delle porte, attraverso il filtro del cielo e delle finestre, formazioni nuvolose evanescenti o persistenti poi nella scaturigine di piogge, oppure asettica «maschera di neve»; e i vetri che ora amplificano, ora distorcono, ora offuscano le forme luminose: riverberi che, nello stato di grazia dell’amore-poesia, assumono un incanto (ir)reale, che è una saturazione/rifrazione cromatica (manierata) e, insieme, concettuale, sentimentale.

Oltre i dati di cronaca, che sono quelli che definiscono l’economicità borghese per cui il poeta povero non potrebbe sposarsi, compare il tramonto specchiato in venature o grumi di colore sul viso degli amanti, sul corpo biancheggiante e progressivamente penetrante (e penetrato, ma dalla platonica luce) di Fanny, oramai iniziata alla suggestione della poesia, e su quello smunto di Keats, giunto l’inverno, avviato allo sfacelo. È lo stato liminare e crepuscolare (scenario ideale della precarietà dell’amore e dell’ispirazione) insito in ogni accensione, che pone la vicenda in una dimensione atemporale per quanto labile (come la vita delle farfalle), tale che, come «rimosse le palpebre», come sinfonicamente distesi sulla chioma dell’albero (con panoramica dall’alto, manierata, sublimata, in pieno Romanticismo) non si distingua più la luce del mattino o quella pomeridiana o del crepuscolo penetrante dalle finestre, nel tripudio dello svolazzo delle farfalle e delle tende, o del cadenzato campo di fiori fuori, ma si percepisca l’indistinta bellezza (concentrazione) della luce (e del tempo) che promana dal fatto di amare e di creare.

Il fulgore di questa bellezza, tratta dall’Endimione e posta come antifona all’inizio della storia,  mette in luce le alterazioni (rifrazioni) provocate dalla creazione, per cui Fanny, nel baluginare atmosferico, accantona i ricami che si addicono alla (vacua) fanciulla borghese, le suppellettili, la superficie ornamentale delle facezie, e si vota, con una maturità che traspare dal suo volto dolente, alla poesia, convalidando peraltro lo scarto, diciamo così, politico e rivoluzionario (antiborghese) intrinseco ad ogni atto creativo. La prospettiva (di liberazione) è ovviamente femminile; la consecuzione vagamente dantesca: Fanny (ri)nasce quando incontra la poesia (incarnata in Keats); il fulgore della poesia nasce dall’Amore, che, al di là dall’affezione umana, indica un deciso sfaglio coscienziale, culturale e (meta)fisico, che è tutt’uno cioè con la metabolizzazione dei riflessi.

E allora il neoplatonismo di Bright star questo erotismo per irradiazione, fluttuazione che è «sempre/ sentirne il su e giù soave d’onda», scambio di Idee, piuttosto che compenetrazione di sessi, feroce amputazione di arti com’è in Lezioni di piano celato dietro il dipanarsi delle umane vicissitudini, sembra scandire perfettamente, alla fine, la vicenda lancinante dell’immagine poetica, cinematografica, celebrando ancora l’illusione di sottrarre l’amore (del creare) al destino di obnubilamento e consunzione delle immagini luminescenti.