Un elicottero che sovrasta il set, creando un fortissimo vento sottostante. Dei giganteschi ventilatori e degli inservienti che lanciano foglie secche, attingendo da una gran quantità di sacchi, in modo da farle volteggiare in aria sfruttando l'immensa forza eolica che viene così generata. In un paesaggio già di per sé desolato e marginale, colpisce il macchinoso e artificioso intervento sulla realtà per ricreare quel mondo aspro, estremo, quella finis terrae, la rarefazione primordiale, il caos degli elementi, di A torinói ló, l'ultimo immenso film di Bela Tarr, il cui backstage è ripreso in questo documentario di Jean-Marc Lamoure sul cineasta ungherese.
Lo scarto notevole tra l'immagine filmica e il profilmico, è la cosa più affascinante che emerge da questo documentario. L'attore János Derzsi che pela patate bollenti a mano scherzando sui red carpet di festival internazionali che potrebbe portargli quel lavoro. Un cinema ascetico e contemplativo che per essere realizzato necessità di mezzi concreti e costose strumentazioni. Un cinema speculativo, metafisico sul cui set si può ascoltare, come contrappunto trash, Kalimba de luna, hit di world music degli anni ottanta del napoletano Tony Esposito, nella versione del gruppo cult della disco music Boney M.. Ma Bela Tarr, come tanti registi, mette anche la musica della colonna sonora durante le riprese, perché sia d'ispirazione. Il contrasto stesso tra le melodie mesmeriche del compositore Mihály Vig, ben noto ai conoscitori del regista, e il fatiscente edificio, un palazzone in stile Quarto Oggiaro, l'abitazione del musicista, dove queste sono concepite.
Emerge un gruppo di lavoro a dimensione famigliare, il regista, la moglie, gli amici collaboratori. Un rammarico che nel documentario però non compaia lo scrittore-sceneggiatore László Krasznahorkai, impegnato da anni in un sodalizio artistico con il regista.
Jean-Marc Lamoure, con questo semplice e modesto documentario, registra una pietra tombale, il funerale di un cinema, proprio come ironicamente sottolineato dallo stesso Bela Tarr, scherzando sul seppellimento della macchina da presa, interrata per una ripresa dal basso (definita in modo fuorviante ozuiana). Il cineasta ribadisce più volte che A torinói ló rappresenta la sua ultima opera. E il suo rigore estremo, e la sua onestà intellettuale, sono una garanzia che non faccia invece la fine di un Wim Wenders qualsiasi.
Non ha particolari meriti Jean-Marc Lamoure. Il taglio del suo lavoro è quello di un qualsiasi extra di dvd. Ma in fondo basta accostarsi a questo grande cineasta per rimanere in estasi contemplativa. Proprio come Karrer che osserva i carrelli della teleferica in Kárhozat, János che fissa la balena in Le armonie di Werckmeister, Maloin che guarda i treni passare in L'uomo di Londra.