Se c’è un pregio di Carlo Mazzacurati è quello che ama i suoi personaggi, sempre carenti (per lo più di pecunia), lacunosi, bistrattati. Che poi sembra difficile non amare il Fabrizio Bentivoglio della Lingua del Santo (adesso ripreso in un cameo esilarante in cui, insieme a Silvio Orlando, interpreta la parte di un venditore di dipinti su un canale televisivo, inventandosi immantinente, movimenti pittorici, stili, motivazioni semiologiche di questa o quella tela) o il Mastandrea di questa Sedia della felicità (nella sezione “Festa mobile”) mentre va alla ricerca di un tesoro nascosto in una sedia, che poi si tramuterà nella conquista dell’amore.
Ed è proprio il bambinesco paradosso e il non senso di certe scene il motivo più interessante del film: personaggi e sfondi dipinti proprio nello stile di uno di quei quadri naif incensati dagli imbonitori Bentivoglio-Orlando, come i due fratelli montanari dislessici, con cane, che ad un tratto si dispongono in modo rigidamente stravagante sotto un pergolato per una foto (c’è lo stesso piacere del naif del dipinto con sfondo rosa e cane proteso alla sedia a cui s’affeziona Dino-Mastandrea), prima di intraprendere il santo pellegrinaggio redimito di gioielli. Ma sono picchi di un film per il resto discontinuo, semplificato, forse per propria natura; un bozzettismo che appartiene costitutivamente a Mazzacurati ma che in alcune circostanze era uscito dal proprio schema raggiungendo maggiore profondità di indagine, come, mettiamo, nel Prete bello, nella Lingua del santo o nella Passione.
Red Family del coreano Ju-Hyoung Lee (in concorso) ha una certa, intessuta problematicità, praticando per certi versi l’aporia della famiglia (e della società), nel senso di un’irresoluzione tra quella di stampo occidentale, consumistico e quella comunista e irreggimentata: due modelli che si riflettono, in quella poetica dello specchio che è tipica di Kim Ki Duk (qui in veste di produttore e sceneggiatore) e che fa emergere alla fine il mistero di una pura figura, estrema fiducia nelle apparizioni, malgrado tutto, cioè malgrado la politica del capitale così come della coercizione comunista. Ed emerge dal consueto (per Kim Ki Duk) intrico di passioni, sofferenze, sacrifici (di sangue), a indicare la strada dell’affezione, anzi di una politica dell’affezione, nonostante gli scollamenti, le incomprensioni, le lontananze.
Ma è dalla sezione “Onde” che arrivano le cose più vibranti, nel segno dell’ipnosi, della psichedelia, già prefigurata dalla sigla lisergica, piena di striature fauviste, luccichii stupefacenti. Historia de la meva mort di Albert Serra è un viaggio nella Storia, anzi nelle pieghe di una splendida ucronia (un Settecento reinventato, falsificato), in cui un Casanova molto più serio e sibillino del solito caca e ride e fotte con una certa macabra consapevolezza dei luoghi e del tempo e della “roba” (che sia merda oppure oro) e incontra un Dracula sacerdotale, iniziatico (che ripercorre e reinventa episodi biblici), grazie a cui forse troverà la morte, o una nuova vita fatta di assenza. Che è una dilatazione estrema dei tempi e degli spazi divenuti pura astrazione o decorazione o solo tinta, motivo ipnotico di fondo: una morte come psichedelia, come processo di fagocitazione dei personaggi da parte di uno sfondo brulicante che non fa che, in ogni istante, affermarsi come sbavatura (anche sonora) estraniazione e lenta evanescenza.
Una fenomenologia dilatatoria come materializzazione, brulicamento della morte, che riguarda anche il magnifico Noche dell’argentino Leonardo Brzezicki (sempre in “Onde”), che si muove tra Lisandro Alonso e Sokurov, fino al Van Sant di Last Days; ma ci potrebbero essere anche l’Erice delle misteriose dissolvenze incrociate (sull’ombra), il Tarkovskij dei ruderi (stupenda la sequenza dei cani che invadono la tavola per divorare i resti di un pollo) o il Weerasethakul della metafisica degli accrocchi (lo strano diffusore a vapore di Sang Sattawat da cui parrebbe nascere il film; in questo caso la diramata strumentazione di mixer, cavi, diffusori acustici, ricetrasmittenti dalla voce stridula e metallica che compongono le sequenze della Noche); eppure in un film di reinvenzione (dei possibili referenti), dalla mortifera, autogena vita, che dà sostanza (fluida) all’avvertimento del Dolore, in forma di notte trascolorante e mobile; del mormorare rigoglioso e tenebroso della natura (del fiume); stratificazioni boschive e sonore (registrazioni di voci o suoni o musica tecno), tramonti e albe immobili, silenzi spessi, un’oscurità incombente, che sono materia e peso (enorme) e carne ed esistenza del suicidio.