diarioroma1Che poi alle cinco de la tarde è già tardi, è già sera, e «la piedra es una frente donde los sueños gimen/ sin tener agua curva ni cipreses helados./ La piedra es una espalda para llevar al tiempo / con árboles de lágrimas y cintas y planetas» (la pietra è una fronte dove i sogni gemono/ senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati./ La pietra è una spalla per portare il tempo/ Con alberi di lagrime e nastri e pianeti), ed è accaduto che a mano a mano… che si facesse tardi… (ma la sala stampa è un troiaio di telefonate, di donnine isteriche e occhialute che biascicano vontrier, di nerd urlanti; e allora inforco le cuffie e metto Stars are our home, traiettoria infantile tra i pianeti, ma se mi viene il mal di testa cazzo, devo starmi buono con l’oki e poi c’è la promessa di bersi una cosa, ma la sublimità, l’accorata [I don’t mean to] Wonder m’aiuta a ricordare); un presentimento, poi la constatazione, no, il timore di perdere ancora (non so cosa)…  è accaduto che il paesaggio campano curvasse vertiginosamente fino a Caserta dove a fianco alla ferrovia un arbusto si scrollava, pieno zeppo di una zazzera di foglie. Che poi la distanza tra due punti vivi si risolve in quel serraglio vegetale, o anche solo sulla superficie di una foglia morta, di un occhio di donna da rifuggire (col suo bagaglio di via vai nei tram, la sera), della cappa biancastra de la tarde o di una scarpa con tacco sonante, una patata, un bicchierino di tè. I got your love.


I am not him
(Tayfun Pirselimoglu). L’amore sarebbe, alla fine (ammesso che non sia all’inizio), questione poetica: ma proprio nel senso di poiesis; è inconcepibile fuori dal gioco nietzschiano, fuori dalla veritativa superficie e stupefazione e traboccamento di immagini e personaggi persi nel loro enigmatico (kieslowskiano) via vai. Perciò il ritorno è questione di mondo, sta (anzi diviene) in superficie, nelle farragini arboree, alla stazione in una mattina d’autunno, sulle strade, dentro stanze, fino a tavoli e sedie inquadrate allo stesso modo (eppure cogliendoli diversamente); è questione d’inquadrature dunque (di ri-quadri, margini, strutture – scritture - poetiche pronte a carpire le cose nel loro vero senso, anzi a incarnarne finalmente la verità) e di oggetti ripresi (poetati), intorno a cui si gioca la vicenda dell’eterno ritorno della vita e dell’amore.

È il bellissimo I am not him in cui Nihat, kaurismakiano inserviente votato alla solitudine, trova l’amore avvicinandosi (accettando di avvicinarsi, quasi per inerzia) ad Ayse, donna luminosa e generosa, che letteralmente, per diversi presagi, disegna, forma l’identità dell’uomo, prima (o dopo: l’opera non ha origine in un punto, né fine) che diventi (o sia, sia sempre stata, eppure mai) una puttana con le striature biondastre in testa: identità e adiacenza (o evanescenza e lontananza) misurate, anzi incarnate da luoghi e oggetti topici: le patate, la prigione, il mare, le navi, il letto, il tavolo, le sedie, il bicchiere di tè, le scarpe, ritornano nella loro cristallina, surreale evanescenza e scandiscono il sogno (di vivere e di amare) di Nihat, perso nel suo deterritorializzarsi (per inerzia, trasportato dalla necessità di essere personaggio e alimentare la storia), nel suo spostarsi e riterritorializzarsi in luoghi (porti, navi, bar) e soprattutto in zone di film nuovi, impensati. Niaht si addormenta variamente, all’improvviso, poi si sveglia (ma si sveglia?) stropicciandosi gli occhi, aprendo lo sguardo alla carne viva del suo sogno e del suo amore: Ayse, per la quale accetterà di rinascere e di rivivere diversamente (come seguendo un vago copione), abbandonarsi alla necessità dell’Immaginazione, fino alla fine (cioè l’inizio), fino al battere ritmico di un tacco di scarpa sulle sbarre, come rintocco dionisiaco a sancire l’inizio del gioco.