altUna giungla incantata e pericolosa. Una donna con il marito. Un bambino e un’adolescente che sembrano fratello e sorella. Un’altra ragazza con due uomini provenienti da un’altra epoca. Colpi di fucile. Una fuga. Una cascata e una tempesta. Amore. Passione. Morte.



Oggetto misterioso e ipnotico, presentato nella sezione Signs of Life del Festival, Favula di Raúl Perrone è una seducente esperienza cinematografica più che un film comunemente inteso. Liberamente ispirata a una favola africana di cui però non restano che deboli tracce, questa pellicola argentina è un’opera che si compone di immagini stratificate, sovrapposte, bruciate, di luci pulsanti e lampi che squarciano lo schermo, di suoni alieni che provengono da chissà dove, mentre una musica che fonde con disinvoltura il folklore all’elettronica, passando per un’aria di Puccini e per il rock rivisitato dei Joy Division, scandisce il tempo (inventato) di una narrazione solo ipotetica. Piuttosto che di surrealismo, che pure viene chiamato in causa in un gioco cinefilo mai fine a se stesso, sarebbe forse il caso di parlare di cinema-psichedelico.

Raúl Perrone, cineasta indipendente con oltre trenta film all’attivo, famoso in patria, meno conosciuto all’estero, è un mago come lo era Méliès, un alchimista che sperimenta senza sosta nella sua casa-laboratorio a Ituzaingó, in provincia di Buenos Aires. Con Favula, in un’operazione per certi versi affine a quella compiuta dal portoghese Miguel Gomes in Tabu, egli riesuma il cinema del passato (oltre a Méliès, a Dreyer o al primo Fritz Lang, è possibile trovare anche qui riferimenti a Murnau, si pensi ad esempio alla sequenza in barca che rievoca la celebre scena di Aurora), non per mero citazionismo, ma per lavorare su un immaginario comune (quello cinematografico, appunto) e proiettarlo in avanti, tramutandolo in qualcosa di radicalmente diverso. Come un artigiano, Perrone trasforma la materia, incide sulla superficie perfetta delle immagini, forse alla ricerca della loro natura grezza. Sulla tela bianca si verificano così strani fenomeni, appaiono figure spettrali, si aprono dei varchi che conducono a mondi paralleli, a realtà alternative. In questo senso, è difficile non pensare al cinema di David Lynch, specie a INLAND EMPIRE in cui avveniva qualcosa di analogo e che, curiosamente, col film di Perrone condivide anche una “storia” simile, avendo ambedue a che fare con una ragazza in pericolo, loschi traffici umani, desiderio e redenzione.

Favula però sorprende per la sua originalità. Non solo a causa di questi esoterici esperimenti condotti sulle immagini (che a furia di essere intervallate e sovrapposte su piani diversi quasi perdono la loro bidimensionalità a favore di un primitivo, ammaliante, 3D), ma anche grazie a un uso inedito del sonoro e delle tracce musicali, che attraverso tastiere, flauti, tamburi, maracas e decine di altri strumenti, contribuiscono a dar vita a un sogno allucinato. L’occhio e l’orecchio divengono allora prigionieri di un incantesimo macchinato dal regista; e in questo caos di ombre, fantasmi, bisbigli e segreti richiami, chi guarda e ascolta è chiamato a (ri)costruire il senso della pellicola. Perché il film di Raúl Perrone, secondo capitolo di un’ideale trilogia cominciata con P3ND3JO5 (2013), non è fine a se stesso, non è privo di logica, semplicemente ne segue una diversa: la logica del cuore.