Grazia Paganelli
Dopo quattro anni Ahmad torna a Parigi da Tehran per portare a termine le procedure formali del divorzio da sua moglie Marie. Una storia semplice e in qualche modo già nota per il primo film francese del regista iraniano Ashgar Farhadi Le passé, in competizione ufficiale al 66esimo Festival di Cannes e tra le opere più belle e inquiete viste fino ad ora. Come sempre accade nei suoi film, l’intreccio catalizza ogni attenzione e ogni sforzo: i personaggi e gli ambienti attorno a loro, il passato e il presente che li tiene uniti e li separa al tempo stesso. Ci si avvicina lentamente ad Ahmad e Marie, eppure si ha la sensazione di precipitare dentro le loro vite fin dall’inizio, sul volto della donna che aspetta dall’altra parte del vetro che l’uomo esca dall’aeroporto. Si parlano senza sentirsi e si ritrovano in auto, sotto la pioggia, nel travagliato viaggio di ritorno in città. Basta poco al regista iraniano di Una separazione per mettere in campo tutte le tensioni che saranno declinate via via, anche quelle non dette, ancora insospettabili, sepolte nelle scatole abbandonate in cantina o in messaggi mai letti o mai mandati.
Si scopre lentamente che il passato di Ahmad e Marie fa ancora parte del presente, è messo alla prova, interrogato, anche rivissuto in queste due ore di continui discorsi attorno ai segreti e ai misteri di tutti. Nulla è come sembra perché non c’è una sola verità a spiegare le cose. Il groviglio di silenzi, parole, gesti nervosi e attese dilatate fa pensare a Polanski e al modo del tutto simile di sviscerare con anatomica precisione i drammi. In questo film apparentemente semplice, dunque, nulla accade senza conseguenze davanti allo sguardo di un regista che sa trovare i tempi perfetti, dilatandone gli effetti, ma restando sempre ad un passo dal limite. Teoria delle scatole cinesi che nascondono misteri pronti ad infiammarsi, ma raggelando il melodramma sempre pronto ad esplodere, eppure contenuto, anzi, costretto dentro la forzata pacatezza di cui Ahmad si fa segno anche filmico. Non ci sono più gli scatti d’ira, gli eccessi gestuali di Una separazione perché la ricchezza dei dettagli e l’accurata scrittura impongono una drammatizzazione calcolata istante dopo istante, volta a tenere uniti i punti, a far convergere tutte le linee come un cerchio infinito. Si deve guardare bene tutto perché è la trasformazione degli ambienti a dare le prime informazioni di dove il film ci sta portando. A partire dalla casa di Marie, l’ultima della via, che poi sembra perdersi nella campagna. L’isolamento, quindi, preme come un’idea inalienabile. Non si può fuggire e non si riesce a fuggire; nonostante i tentativi, le rotture, le vere e proprie partenze, tutto sembra spingere i personaggi a tornare in questa casa che si trasforma sotto i nostri occhi. Confusa e quasi disagevole all’inizio, diventa via via ordinata, cambia colore, si imprime nella vita di chi la abita anche per poco (come la macchia di vernice sulla maglietta di Ahmad). Nel frattempo, però, l’intreccio si è sciolto e complicato più volte, i legami si rompono e si ripristinano in forme diverse, incessantemente, fino allo sfinimento.Ma si tratta di un istante, perché il lavorio profondo dei sentimenti è pronto a ripartire anche dopo i titoli di coda.