Massimo Causo
Il contrasto, nel cinema di Jeff Nichols, è sempre tra la fuga e il ritorno: credi sempre che le sue siano storie in cui tutto ruota attorno alla necessità di fuggire, fisicamente o anche solo psicologicamente, moralmente, ma poi ti accorgi che la partita si gioca solo e soltanto sull’esigenza di tornare al punto di origine, di concentrarsi in un centro in cui tutto può trovare una sua collocazione. E’ così anche in Midnight Special (Berlinale 66, Consorso), che in tal senso spinge ancora più oltre questo criterio logico.
La formula è quella del runaway drama, ma in forma inversa rispetto al dickensiano Mud: qui della fuga nel chiaroscuro malickiano della provincia americana è protagonista un ragazzino di otto anni, Alton, braccato dai federali tanto quanto dagli adepti di una setta avventista, e accompagnato e protetto dal padre, Roy (Michael Shannon,) e dal suo amico d’infanzia, l’ex marine Lucas (Joel Edgerton). Una fuga notturna, la sua, ché questo ragazzino dall’aria emaciata (Jaeden Lieberher) va protetto non solo dagli uomini ma anche dalla luce del sole. Il potere che porta dentro, al quale mirano quelli che gli danno la caccia, ha qualcosa di straordinario, qualcosa che incombe e che forse va tenuto in lui, una forza meravigliosa in grado di promanare dai suoi occhi, che infatti sono sempre protetti da occhialini.
L’assunto su cui Nichols costruisce questo suo dramma è messianico in senso spielberghiano prima maniera (ma poi potete mettere sul piatto pure il Carpenter meravigliosamente da studio di Starman o magari pure il Victor Salva di Powder...), il che colloca il film in una torsione fantascientifica delle sue tematiche solitamente molto terrestri: il suo è un cinema di orizzontalità, trovato nei fangosi backyards familiari della provincia, tra visceralità domestiche, paranoie d’assedio, istinti di fuga, pulsioni rigenerative, dove la luce del sole è chiave di volta di un universo esteriore che descrive emozioni inscritte nel mondo, controcampi malickiani giocati sul riflesso lucido delle lenti...
In Midnight Special, invece, è tutto un gioco inverso di introiezione, il dramma che Nichols costruisce sul corpo messianico del piccolo Alton è quello del contenimento della luce, dell’introiezione della fuga. Il film è tutto un trompe-l’oeil ideale: credi di assistere alla fuga di un ragazzino braccato dagli uomini e invece stai solo seguendo le coordinate di un appuntamento con la libertà. La tensione è alta e continua, Nichols maneggia con cura il plot, consapevole delle pulsioni newage che si porta dentro tanto quanto dei rimandi cinematografici su cui lavora. Ma evita gli inciampi, mantiene una sua purezza soprattutto nel basare il tutto sul rapporto di introiezione affettiva che opera rispetto al personaggio del padre, interpretato non a caso dal suo attore feticcio, Michael Shannon, al quale consegna il vero baricentro della storia, molto più di quanto faccia con la figura materna (Kirsten Dunst) e con lol stesso piccolo protagonista.
Il sistema pulsionale del suo cinema, l’emotività che diffodne nel gioco relazionale tra la tensione narrativa e la profondità prospettica offerta dall’ambiguità psicologica dei personaggi, è tutta inscritta nella sostanza vettoriale del film, in quel suo incessante incedere verso un altrove mascherato da fuga. Midnight Special è in realtà un film in cui il mondo sta dentro, la verità è parallela, la tensione implosiva del cinema nicholsiano si traduce in una esplosione che cambia le coordiante del reale. Insomma, prendete Take Shelter rivoltatelo come un guanto e capirete cos’è questo film: la tempesta non arriva da fuori, ma da dentro...