Massimo Causo

altLa questione con il cinema di Gianfranco Rosi sta sempre nel livello di astrazione che cerca. Il discorso vale anche per Fuocoammare (Berlinale 66, Concorso), che si colloca a Lampedusa, in quello che è stato l’avamposto dell’emergenza umanitaria degli immigrati ora diffusa su altri fronti di avvistamento e ammassamento dei profughi. Il suo punto di contatto con la realtà si sposta sempre un gradino più in alto del suolo, assume una prospettiva simbolica che è, allo stesso, tempo, la ragione del suo fascino e il motivo del sospetto che può generare.


Non che si pretenda l’assunzione di una prospettiva cronachistica, sia chiaro, ma l’impianto simbolico che sorregge le sue analisi si traduce puntualmente in una narrazione che sembra dissociare la posa in opera dell’osservazione dall’empatia che ci si attenderebbe. Un anno di vita a Lampedusa per quello che in principio doveva essere una sorta di piccolo instant movie sull’emergenza immigrazione metabolizzata dagli isolani e infine Fuocoammare è la costruzione di un universo strutturato attorno a una focalizzazione che sembra astrarre l’urgenza della verità in un quadro quasi intimista. Ci si trova di fronte a un film sospeso su linee poetiche anche forti e interessanti, sia chiaro, ma illuminate di traverso, con una obliquità che quantomeno spiazza.

La dimensione isolana, intanto, garantisce a Rosi quella struttura concentrica che gli è propria da sempre, quel bisogno di circoscrivere un perimetro poetico in cui il dire si traduce in narrazione, quel grande raccordo anulare che contiene un mondo e lo descrive nella sua linearità lirica, senza escludere la realtà dal perimetro. In Fuocoammare Lampedusa è lo spazio di un universo assente, una vera e propria astrazione che si incarna in scorci senza coralità, ed è questo un elemento molto forte nel film: Rosi non cerca la scena corale, cerca piuttosto l’individuazione di figure alle quali consegnare il paradigma: vediamo porzioni di una comunità che resta silenziosa, tradotta nel controcampo reciproco tra il medico dell’isola, Pietro Bartolo, che da anni cura gli isolani così come il flusso di immigranti, e il piccolo Samuele, 12 anni, figlio di pescatori, che va a scuola, costruisce fionde, gioca con un amico e ha un occhio pigro che deve curare.

Il primo è il punto di contatto per Rosi con il dramma dei migranti che approdano sull’isola, ne mostra le foto, ne cura le ferite. Il secondo è il punto di fuga che permette al regista di raccontare l’umanità isolana: le escursioni sulla scogliera e nell’entroterra, la famiglia, i pranzi, i giochi... Il dramma umano degli immigrati resta come la terza prospettiva, quasi una funzione astratta della narrazione, che si apre per squarci di scene di salvataggio, immagini un po’ marziali e un po’ umanitarie di squadre di di soccorso costiero che rispondono alle voci, vere, che implorano soccorso via radio. E qua e là porzioni del centro di prima accoglienza, il dramma dei moribondi che giacciono disidratati, i corpi tremanti, e anche la quotidianità del centro, una partita di calcio improvvisata, le foto di identificazione...

L’impianto umano è forte, netto, non manca di vibrare di emozioni che arrivano precise soprattutto quando la verità documentaria delle immagini e dei suoni si fa precisa. E’ che poi ti ritrovi davanti a un film che forse scientemente non cerca l’empatia, preferendo la costruzione simbolica della realtà. E allora capisci che Rosi segue scelte teoriche ben precise, senti per esempio che la linea che unisce le onde della radio locale di Lampedusa, con le sue canzoni popolari e le dediche ai familiari offerte dal dj, e le onde radio che portano i messaggi disperati dei naufraghi è cercata con consapevolezza. Senti che quell’occhio pigro del piccolo Samuele è il riflesso della pigrizia tutta nostra del vedere il dramma che si para sotto i nostri occhi. Capisci che il gioco con la fionda del ragazzino è destinato a tradirsi nel richiamo con cui alla fine il piccolo istaura un dialogo con gli uccelli che prima cacciava... Insomma l’impianto è preciso, anche troppo... Come troppo netta appare la scelta di negare coralità alla scena, di far implodere lo scenario di Lampedusa negli interni domestici, nella tensione tutta intima del rapporto che il regista ha instaurato con Samuele e col medico. E un po’ infastidisce la levigatura suggestiva delle scena sulle navi militari, i portelloni che si aprono all’alba e lasciano levarsi in volo gli elicotteri...