Massimo Causo

altUna casa, anzi due, contigue e alternative, come è sempre un po’ tutto nel cinema di Kiyoshi Kurosawa. Il suo nuovo film, Creepy (a Berlino 66 in Berlinale Special), resta immancabilmente ancorato all’idea di un mondo in cui la specularità e lo sdoppiamento sono la chiave di accesso alla natura implicita dell’esistere. Lo avevamo lasciato in Kishibe no Tabi (Vers l’autre rive, lo scorso anno a Cannes) sospeso alla transitoria immaterialità della vita reale, in bilico tra la quotidianità di una vedova e l’altrove di un marito morto anni addietro, eppure ancora presente nel suo tempo.


Lo ritroviamo in Creepy stretto all’ossessione speculare di una famiglia che si disperde in un vortice di dipendenza: una nuova casa in cui vivere assieme alla moglie, un nuovo lavoro da insegnate di criminologia e l’ex detective della polizia Takakura crede di potersi lasciare dietro l’ossessione per essersi fatalmente sbagliato nel valutare un giovane serial killer. In realtà quella nuova vita non è che la porta socchiusa su una nuova ossessione, l’accesso improprio al mondo oscuro parallelo che si cela sempre, sotto la coltre della realtà, nel cinema di Kiyoshi Kurosawa.

Il suo vicino di casa, Nishino, è di sicuro una figura strana, un sociopatico che vive recluso assieme alla moglie invisibile e alla figlia che palesa una normalità sospetta. L’incubo inizia col tono un po’ surreale delle stranezze comportamentali di Nishino, che adesca progressivamente la nuova vicina, mentre Takakura finisce nelle spire di un’indagine su un vecchio caso irrisolto, che aveva visto la misteriosa sparizione nel nulla di un’intera famiglia. Kurosawa gioca sull’equilibrio instabile delle due figure in campo, la contrapposizione netta, quanto invisibile, tra Takakura e Nishino diviene progressivamente un gioco di intrusioni reciproche: Takakura indaga sul vecchio caso irrisolto e non sa che la chiave di volta del mistero è proprio Nishino, che ora sta minacciando la sua famiglia senza nemmeno darlo a vedere. Perché il punto è questo: la mascherazione della realtà insidiosa, il gioco invisibile di Nishino, l’attrazione fatale e assurda del male, che il mostro della porta accanto suscita e la dipendenza che provoca ad arte.

In tutta la prima parte Kiysohi Kurosawa lavora infatti sulla circonvenzione, sulla manipolazione che genera il mistero e annulla la ragione: i movimenti di macchina sono avvolgenti, circoscrivono traiettorie attorno ai personaggi, che sembrano quasi danzare in tondo su sé stessi, in un continuo spostamento progressivo reciproco. Poi viene fuori la traccia della specularità e l’istinto doppelgänger, che si radica finanche nelle topografie, nella contiguità delle case di Nishino e Takakura che corrisponde a quella tra le case della famiglia scomparsa e del suo vicino. Il film allora diventa tutto un progressivo inabissarsi nel doppiofondo della realtà, il sistematico rapporto di intrusione dell’ombra nella quotidianità, il progressivo disvelamento del male e l’annullamento immancabile dell'umanità nella sua fantasmatica perversione.

L’antro dell’orrore in cui Nishino costruisce il suo mondo alternativo, in cui azzera la volontà delle sue vittime, le lascia soggiacenti nel loro limbo di non vita, è solo il preludio al terzo movimento del film, quello in cui Kurosawa, nel pieno della sua forma filmica, proietta radicalmente sul mondo l’ombra insensibile della non vita, la disperazione di un sordo urlo che proviene da lontano: da Kairo, da Cure, da Charisma, da Bright Future... Il finale lascia i brividi, senza scampo nella sua apparente risoluzione, difforme nel suo sordo orrore surreale, spinto in uno scenario che ormai sopravvive a se stesso e al male che si porta dentro e che sempre più veste anche fuori.