Massimo Causo
Il nocciolo della questione coloniale continua a percorrere il cinema portoghese, una sorta di eco che risuona nelle trame di un filmare fatto di distanze da coprire con un immaginario che prende forma dalle ombre della Storia. Basti pensare al recente John From di João Nicolau, visto al Torino Film Festival, o alle avventurose deviazioni narrative di Miguel Gomes in Tabu. E’ tutto un gioco di elaborazioni in trasparenza, tra testo lontano, contesto presente, allitterazioni immaginifiche che suscitano fantasmi rimossi della coscienza o anche flussi di memoria che appartengono ad altre generazioni e ritornano nel presente come una manciata di coriandoli che non riesci a toglierti di dosso.
In questa direzione si muove anche Ivo M. Ferreira, che nell’ipnotico Cartas da guerra (in Concorso alla Berlinale 66) si applica con una coscienza letterale, oltre che letteraria, alla messa in posa filmica delle lettere inviate dal fronte africano della Guerra Coloniale da António Lobo Antunes, all’epoca ventottenne psichiatra e medico del reggimento, poi divenuto uno dei massimi scrittori portoghesi. Il topos letterario epistolare bellico è la traccia di un film che scorre nella dislocazione visiva e sonora di un continuo flusso in controcorrente, lavorando tra allitterazioni visive e divaricazioni narrative sulla traccia della serie di lettere scritte alla moglie dal medico, impegnato sul fronte angolano.
Un autentico poema in cui vita in guerra e tensione d’amore si intrecciano indristricabilmente, infine pubblicato (per volere della moglie, ormai morta) nel 2005 col titolo D’este Viver Aqui Neste Papel Descripto. Il bianco e nero della splendida fotografia di João Ribeiro, insieme al montaggio di Sandro Aguilar (a sua volta straordinario regista e cofondatore della società O Som e a Furia, che produce), compongono il contrasto tra lo scenario naturale e la marzialità delle figure in campo.
In Cartas da guerra resta prevalentemente il lavoro di illusione reciproca tra il visivo e il sonoro, la disposizione di un cinema che vive nel detto di un testo letterario percorso sino in fondo con consapevolezza lirica, mentre respira nella pulsione infinitiva del flusso di immagini, elaborate con precisione compositiva ma anche sospinte in un continuo ripensamento dello spazio visivo. Il rimando immediato è quello malickiano alla Sottile linea rossa, ma in realtà Ferreira lavora più distintamente sul versante evocativo che spirituale, distanziando la posa in opera delle tensioni marziali dalla profondità della riflessione offerta dal testo delle lettere.
In più nel film si sente il riecheggiare di un immaginario che sembra evocato più dalla distanza di chi aspetta a casa che dalla immanenza dell’essere nel fango e nel sudore del gesto bellico, fatto di attese, accampamenti, virilità diffusa, cameratismo. In qualche modo, un film come Cartas da guerra fa venire in mente il lavoro fatto da Teresa Villaverde ai tempi del suo esordio, la fiaba nera A idade maior, costruito com’era sull’ombra della guerra che il padre soldato, tornato dal fronte, proiettava sul figlioletto che aveva ritrovato già cresciuto.