Massimo Causo

altIl corpo assente (e permanente) della rivoluzione

La cristologia rivoluzionaria fa tutta riferimento al corpo assente nella risurrezione, al continuo rimandare la verità della liberazione: Lav Diaz ne è ben consapevole e fa di A Lullaby to the Sorrowful Mystery una testimonianza sacrale del tempo tradito dell’attesa rivoluzionaria del popolo tagalog. Come fosse una sacra rappresentazione, facendosi carico con la consueta laica consapevolezza del portato cattolico dei vissuti popolari della sua gente, Lav Diaz si spinge in un fluviale racconto che disloca la storia nel mito e il mito nella verità astratta della natura.


Il film è tutto un sospendersi di figurazioni pittoriche e derive organiche, l’illusione di poter ricomporre il corpo mancante della rivoluzione filippina iniziata alla fine dell’800, più o meno insieme al cinema, nel corpo magnificamente libero di un film che intrattiene un rapporto paritetico tra la Storia e l’Immaginario del suo popolo, piazzato nell’interstizio tra la verità e la fantasia, la vita e la morte, la fedeltà e il tradimento, la poesia e la prosa, la magia e la sostanza, il melodramma e la tragedia... Otto ore di flusso di coscienza che si incarna nella storia filippina, per un film che va alle radici del movimento rivoluzionario Katipunan fondato da Andrés Bonifacio per levare la testa del suo popolo da sotto il giogo dell’impero spagnolo.

Due movimenti per un’opera che sta tra l’epica rivoluzionaria, la tragedia shakespeariana, e il melodramma popolare, il tutto scritto nella dimensione di una cristologia laica composta tra senso messianico dell’attesa e peso della colpa che discende dal tradimento, dalla sfiducia, dalla disperazione. Da una parte c’è il mystery play del corpo sacro mancante di Andrés Bonifacio, l’eroe nazionale tradito dai suoi stessi compagni (Emilio Aguinaldo, che ne contestò la guida, lo fece arrestare e fucilare) e consegnato alla morte nella foresta in cui i suoi stessi compagni di lotta si nascondevano agli spagnoli e ai ribelli della guardia nazionale. Dall’altra c’è la tragedia che insorge sul tradimento e si dissolve nel melodramma, la tensione di una rivoluzione tradita in se stessa dai suoi artefici. La lotta contro gli spagnoli è l’altro autentico fuoricampo del film, ché il tutto poi si inscrive tra le stanze del tradimento, le vie della fuga e la diaspora nella foresta, in un succedersi di composizioni pittoriche degli interni, prospettive architettoniche quasi wellesiane degli esterni e la distorsione organica di tutta la parte ambientata nella foresta, un groviglio di verde ingrigito tra foglie, fango e sangue, su cui si muovono come anime in pena le figure dei fuggiaschi. 

Lav Diaz dispone la corale come un controcanto uniforme che contiene la prosa e la poesia, l’una dispersa nell’altra, entrambe immerse in quel ventre verde che è la foresta, vero luogo storico e identitario della rivolta tagalog, nel cui intricato abbraccio la popolazione filippina ha trovato a più riprese la salvezza nel corso delle successive occupazioni spagnole, giapponesi, americane... Il film nella seconda parte diventa infatti un intreccio di dramma e melodramma scritto su figure in fuga dalla storia e dalla poesia: da una parte il gruppo delle maddalene che segue Gregoria de Jesus, moglie di Bonifacio, nella ricerca del corpo del marito ucciso dalla guardia nazionale, dall’altra le figure di Simoun, ovvero Crisostomo Ibarra, e dello studente rivoluzionario Isagani, che invece si incarnano dalle pagine di “El Filubisterismo”, romanzo fondamentale di José Rizal.

Lav Diaz si disperde assieme a loro in un canto dolente che piange la sconfitta della rivoluzione come una sconfitta dell’umanità, ovvero come la storia privata della forza della catarsi. Il film è tutto intriso di un sentimento della fine che travalica l’attesa messianica di una rivoluzione tradita in se stessa. L’incombenza del male nelle figure dei demoni metà uomo e metà cavallo, la proliferazione di delazioni, tradimenti, rivalutazioni, il vagare astratto e interminabile delle figure in pena: tutto rimanda a una scansione lirica dell’esistere che si infrange sul destino umano. E l’impatto che si riversa sullo spettatore è di annichilita empatia, l’ipnotico disporsi del tempo dell’attesa mancata che si traduce nelle mezzetinte del bianco e nero cromatizzato tra tonalità di grigio e di vago verde, l’astrazione di un progressivo incedere della poesia nella realtà e della realtà nella morte, la sensazione di stare in un mondo di fantasmi che hanno scritto la storia di un tempo che ancora non c’è.

La tragedia si disincarna nel melodramma popolare, figlio di una cultura che Lav Diaz percorre con consapevolezza e traduce in cinema dal basso per il basso, scritto nella recitazione sublime e sublimata di attori che tengono il tono della sacra rappresentazione mentre incidono il corpo della Storia. Le otto ore della proiezione alla Berlinale resteranno nella (piccola) storia (del cinema), non tanto per la performance di durata dello spettatore e del film in sé, quanto per l’idea stessa di stare in un’opera per un giorno intero, per la resistenza del tono drammatico che impone, per la possibilità di appartenere a un mondo filmico dal quale, alla fine, fatichi letteralmente ad uscire: la rivoluzione permanente è anche questa!