Massimo Causo

altLiquido. Si tratta di lasciar dissolvere le tensioni del filmare nello scorrere acquatico degli elementi, forse in cerca di una immaterialità del cinema che gli appartiene da sempre (emulsioni, pixel...). Un cinema liquido, dunque, in questo primo scorcio di Berlinale 65, a prescindere dalle siccità desertiche del magnifico Herzog...

Terrence Malick, per esempio, sembra galleggiare perennemente su quel mare dal quale non separa mai i suoi protagonisti. Sarà che l’immaterialità del suo cinema sta diventando strutturale, o che il persistente disequilibrio del suo gioco sta entrando in circolo, o magari che ora appare palese come infine tutto non fosse altro che un azzeramento programmatico... Fatto sta che il suo nuovo film, Knight of Cups (Concorso), si offre con una complicità maggiore, trova il punto di contatto con  l’immaterialità del destino del suo protagonista. Christian Bale è una star che voltegia come un corpo senza gravità nell’universo di Los Angeles: ancora storie di amori interrotti e donne trovate, ancora figure familiari, un fratello un padre, conti in sospeso, e poi orgiastiche diversioni, qualche sbandato che irrompe in casa per una rapina...

Tutto ha origine da un terremoto, potrebbe essere il Big One e poi tutto il resto niente altro che un after life alimentato dal sentimento residuale dell’esistere: sarà per questo che Knight of Cups appare così immateriale, dunque più supportabile anche da chi, come me, proprio non segue Malick nella sua (per ora) trilogia a mano libera... Perché questa volta il disequilibrio è materiale, fisico, terreno, non solo una funzione dello sguardo, la fragilità del protagonista non segue teorie esistenziali astratte... Il mare, intanto, fa da sponda inalienabile ai suoi protagonisti, più che nei due capitoli precedenti, qui elemento di una libertà che appare per una volta concreta, autentica, per niente simbolica...

Dal mare al mare: Patricio Guzmàn ne fa una questione identitaria e storica... El botón de nácar (Concorso) è un film-saggio bagnato nell’oceano in cerca della storia dell’umanità e dell’identità di un popolo, quello cileno, dai nativi annientati per mano dei conquistatori alle vittime della dittatura... L’acqua è l’elemento che dialoga con la vita attraverso il tempo e lo spazio,  Guzmàn ne fa la costante di un frasario identitario che unifica l’universo nella sua eternità, al centro di un documentario intimo e logico, storico e poetico, di sicuro distante, nella sua formulazione estetica e nella costruzione, della ricerca dal documentarismo contemporaneo, eppure capace di una nobiltà che accoglie il filmare impersonale in un lirismo che trattiene lo spettatore non solo nel concetto e nell’indignazione, ma anche nella prospettiva umanistica.

altAltra dimensione acquatica quella dei portoghesi Joaquim Pinto e Nuno Leonel in Rabo de peixe (Forum), diario di un’ossessione che ha spinto i due autori a stare per due anni, a cavallo del nuovo secolo, tra il 1999 e il 2001, nel villaggio di pescatori delle Azzorre che dà il titolo al loro documentario. In realtà si tratta della versione definitiva di un precedente montaggio realizzato per la televisione, ora un vero e proprio diario in forma di ossessione antropologica, scritto sulla pelle del loro rapporto con Pedro e i suoi compagni di pesca: film straordinariamente salmastro, fatto di attrazione tutta acquatica per gente che (anche qui come in Guzmàn) galleggia nell’acqua della storia più antica, a cavallo tra il passato di una tradizione marinara, che fa della pesca un rapporto umano, e il presente della pesca industriale, che impone e oppone resistenza.

Pinto e Leonel in realtà guardano ai loro pescatori col desiderio dei corpi sganciati dalla storia, con la passione di un fuori tempo esistenziale che li spinge a una fuga prospettica continua nella confusione del mare: il film è anche troppo lungo, soprattutto nella parte centrale, ma va detto che si sente l’urgenza dello stare accanto ai loro protagonisti, a sentirne il contatto fisico e acquatico, a seguirne i gesti. Opera di coinvolgimento e di deriva esistenziale, destinata ad essere fatalmente irrisolta, se non risolta nella finale (momentanea?) separazione.

L’acqua, del resto, è il punto di arrivo anche di Jafar Panahi, che chiude il suo Taxi (Concorso) sul lungofiume: è il punto di arrivo e di libertà (e di ripartenza, con la telecamera infine in mano a chissà chi...) di un film prigioniero immancabilmente di un ennesimo cameracar iraniano. Al volante c’è lui, Panahi, che fa il tassista di se stesso e delle sue storie, prendendo a bordo varia umanità. Ovviamente il tema è quello della legalità, della giustizia: lui che filma non potendo filmare (l’interdizione è ancora e sempre in corso) si pone in ascolto di figure che parlano di pena di morte, di censura cinematografica (lo spacciatore di film pirata che liberano il cinema...), di ladri per povertà...

Le uniche due figure che si preoccupano della (loro) vita sono le due anziane signore che hanno l’urgenza di liberare in acqua il pesciolino rosso che, scaramanticamente, ha garantito loro un altro anno di vita... È per ritrovare loro che il film finisce in mano a ladri di cinema... Si libera il pesce in acqua, si libera il cinema nella vita... Panahi fa la metafora semplice, il suo cinema del resto è in catene: non gli si può chiedere troppo di più, o forse sì... Fatto sta che Taxi è un film lampante, immediato, capace anche di una fragilità umana che fa tenerezza.