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Per un cinema di sincronie. Tra gesti e materia, tra figure e spazi, tra l’emozione del filmare e la struttura della messa in scena. Non sempre è facile, anzi non lo è quasi mai. Poi però ti imbatti in un lavoro come Counting di Jem Cohen (Forum) e ti sembra quasi una cosa naturale, un gioco da ragazzi impilare frammenti di vita filmata, come fosse inspirare ed espirare, automatismo del vivere con la stessa eleganza con cui, per esempio, i gatti attraversano i film di Chris Marker...


Il rimando markeriano ovviamente non è casuale, dal momento che è proprio Cohen a dedicare al filmmaker francese, scomparso nel 2012, “Skywriting”, l’ultimo dei 15 capitoli che compongono Counting: praticamente una silloge di appunti visivi e sonori, che trovano chiaramente la loro ragione nella sincronia con cui agiscono, nella dissoluzione del ritmi rispettivi, dei tempi di ripresa, dei luoghi del filmare. Cohen lo chiama “life-drawing”, a rimarcare la coincidenza tra osservazione, pensiero, gesto che riproduce, e Counting è uno schizzo che tratteggia non tanto il viaggio quanto gli attimi di sincronia tra il vivere in un luogo e l’attraversarlo con una macchina da presa. New York, Mosca, San Pietroburgo, Istanbul, Porto: il frammento predomina sulla scena, inutile stare ad elencare il catalogo del visibile in questo film, perché è piuttosto il sensibile a restare sullo schermo, la distrazione continua di chi osserva è si lascia sfuggire l’insieme, ma di certo non il dettaglio. Quando poi subentra la musica, tutto diventa ancora più semplice e intenso e Jem Cohen fa davvero miracoli...


altPhan Dang Di, viertnamita in Concorso con la sua opera seconda, lavora invece sulla traccia sincronica della memoria e dell’identità: Cha và con và (Big Father, Small Father and Other Stories) sta sul discorso dell’identità sospesa sulla coscienza di sé: il film è il resoconto al passato di una elaborazione sentimantale in vista dell’età adulta. Siamo sul fare del terzo millennio, tra Saigon e il villaggio sul delta del Mekong dove vive il padre del giovane protagonista, uno studente di fotografia che si è trasferito in città e trova risonanze sentimentali ed esistenziali nel suo compagno di appartamento, di cui si innamora, e nel gruppo dei suoi amici. Nella prima parte, trovata nella confusione di Saigon, Phan Dang Di si muove con una fluidità emotiva e visiva che rimanda alla lezione di Hou Hsiao Hsien, poi sceglie la strada della dicotomia alla Apichatpong Weerasethakul, innescando il doppio corpo narrativo ed espressivo di un rapporto stridente con la natura: in fuga da una banda di taglieggiatori, i protagonisti si immergono nel senso selvaggio di una palude che diviene terreno vago dei loro sentimenti reciproci. Qui il regista sembra tradire una certa meccanicità, per quanto cerchi il dissidio tra gli elementi e le figure, riverberando la violenza delle situazioni nella placita minacciosità della natura. Però Cha và con và resta un film intenso, lucido nella sua ricerca espressiva, forse ancora prigioniero di una maniera che non ha trovato la strada giusta.


altHana/Mark, invece: in Vergine giurata, l’opera prima di Laura Bispuri in Concorso per l’Italia (e la Svizzera e la Germania e l’Albania...), l’elemento focale resta proprio la sincronia del doppio corpo identitario della protagonista (interpretata da una dissimulante Alba Rohrwacher), orfana cresciuta dallo zio in un villaggio albanese. L’antica ritualità del Kanun, il codice tribale albanese, prevede per alcune donne che giurano di rimanere vergini la possibilità di essere considerate a tutti gli effetti degli uomini: vestire come gli uomini, imbracciare il fucile, fumare in pubblico, ecc. Un cambio d’identità sessuale esclusivamente sociale, al quale si appella Hana quando capisce che per lei, orfana e donna, non sarà una vita facile. Laura Bispuri non sta a dire troppo né sugli aspetti storici e sociali delle Vergini Giurate né sul percorso psicologico di Hana: preferisce un cinema che lavora in sincronia con i gesti, materializzando la complessità del percorso nel transito sui tre tempi della storia di Hana/Mark, l’infanzia difficile, la decisione presa nell’adolescenza e infine il viaggio in Italia, dove la sorella è fuggita assieme all’uomo che amava, per evitare un matrimonio imposto. Si potrebbe chiedere di più alla Bispuri, perché si potrebbe pretendere dal suo sguardo una fluidità che invece inciampa nel contrappunto continuo tra l’identità della protagonista e il suo sentire. Perché poi il film lavora proprio sul recupero della verità originaria di Hana, sulla ridefinizione femminile, non meno dolorosa e complessa, che mette in atto nel nuovo mondo. All’opposto del vietnamita Phan Dang Di, Laura Bispuri fa un cinema introflesso, che dischiude raramente le emozioni, ma non per questo le nega. Certo, come traccia espressiva il rigore è salvifico, ma qualche volta un po’ di dannazione ci vuole...